Fra cielo e terra

Fra cielo e terra

Francesco Zenzale – «Per fede abbandonò l’Egitto, senza temere la collera del re, perché rimase costante, come se vedesse colui che è invisibile» (Eb 11:27).

Erano stati quaranta giorni con il risorto, tra apparizioni, desideri, apprendimento e promesse, per poi vederlo ascendere al cielo e cominciare a vivere nell’attesa del suo ritorno che ancora oggi non si è avverato. Attesa che avrebbe inaridito la fiducia se non ci fosse stata l’effusione dello Spirito Santo (At 1:8; cap. 2; Gv 16:12-15).

Perché tutti questi secoli d’indugio? Sono defluite centinaia di generazioni, quante ne dovranno passare? Secoli segnati da fiducia, speranza e dalla resilienza nell’affrontare l’urto violento della malattia, della morte, delle ingiustizie e della perfidia degli uomini!

Come i discepoli, anch’io gli ho chiesto: «Signore, è in questo tempo che ristabilirai il regno a Israele?» (At 1:6). La sua grazia e la gioia della salvezza, instillate nell’intimo, non bastano; non soltanto perché è difficile vivere e soffro per l’immensa tragedia di milioni di persone umiliate per interessi economici e nazionalistici, ma anche perché sono innamorato della sua persona, del suo ineffabile carattere e dall’intensa voglia di imitarlo e di lasciarmi abbracciare e festeggiare (Lu 15:20). Voglio tornare a casa!

La risposta? «Non spetta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riservato alla propria autorità» (At 1:7). Aveva ragione! Anche «gli angeli del cielo» non conoscono il giorno del suo ritorno e nemmeno Gesù per il tempo vissuto su questo inquieto pianeta, «ma solo il Padre» (Mt 24:36). E se a Gesù il «figlio dell’uomo e di Dio» e «Messia» gli fu negato di conoscere l’evento clou di questa tortuosa parabola della vita, come potremmo, così fragili ed egoisti, cercare di conoscere il tempo in cui Dio introdurrà i redenti nel suo regno?

Perciò, volgiamo lo sguardo al presente e cerchiamo di comprendere come muoverci nella sua grazia, considerando il seguente impegno e legame: «io sarò con voi tutti i giorni» (Mt 28.20). Promessa rincuorante ma anche inquietante. Parole evangeliche incoraggianti e paradossali, perché, da una parte, attestano che Gesù percorre i nostri sinuosi sentieri; dall’altra, nel quotidiano, è difficile individuare fatti concreti della sua presenza e assistenza. Da che cosa possiamo desumere che egli stia facilitando la nostra vita? In che modo interagisce in nostro favore? Paolo, nelle lettera ai Romani, evidenziava «che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (8:28 – Cei). Riusciamo a distinguere in questo «tutto» le modalità esecutive di Dio?

Sinceramente, vorremmo… ma siamo deficitari, perché è impossibile comprendere Dio e afferrare il suo agire. Non abbiamo una lista di eventi provati e personalizzati, che ci offrono la possibilità di afferrare, senza indugi, il comportamento di Dio. Da una parte egli ci assicura che, nella potenza dello Spirito Santo, è con noi «tutti i giorni»; dall’altra non è dato di conoscere il suo vademecum o il modo in cui viaggia con e per noi.

Anche nella fede, grazie alla quale siamo agganciati al cielo, è possibile cogliere la medesima singolarità. Nel Padre nostro, la locuzione «sia fatta la tua volontà» (Mt 6:10), esprime un atto di fiducia inesprimibile. Un’azione risoluta e di completo abbandono nell’Altro, vissuta come risposta al silenzio e al mistero di Dio (Sl 37:7). Per fede crediamo in Dio, nella sua parola, nella grazia e nel suo amore. Per fede, esponiamo gioie, dolori e speranze nella certezza che egli raccolga nel suo «otre» le nostre lacrime (Sl 56: 8), consapevoli di non essere mai soli (Eb 13:5). Per fede, viviamo come se vedessimo l’Invisibile, ma senza avere la possibilità di toccarlo, di mangiare con lui e di vederlo operare. Siamo sospesi fra il cielo e la terra! Che strana sensazione! La fede ci innalza, nello spirito e nelle emozioni, dalla «terra» per captare un po’ d’eternità, dalla quale fluisce la pace interiore, ma nello stesso tempo i piedi indugiano nella polvere (Ge 3:19). Fino al «terzo cielo», ma ancora ormeggiati in questa valle di avversi e di miserie (2 Co 12:2).

Questo inspiegabile percorso spirituale può racchiudere una penosa frustrazione, dalla quale può fluire una singolare patologica: l’infantilismo spirituale. Una visione o percezione della presenza di Dio segnata dal magico mondo tipico di un bambino. Una spiritualità marcata da supposti segni (miracoli) che nascondono l’illusione di toccare, gestire Dio e la sua potenza. Siamo, con insolenza, capaci di far scendere «fuoco dal cielo» (Lu 9: 54), chiedere dei «segni» per cercare di smorzare le nostre insicurezze (Mt 12:38) e conferme sulla sua esistenza e presenza. Onestamente, è più facile proiettare su Dio l’estensione dei nostri desideri e percezioni, piuttosto che permettergli che sia «Altro».

Dio non si lascia incantare o manipolare dai nostri sogni o intuizioni. Non si lascia convincere dalle nostre sfibranti preghiere e osservazioni su eventi che ci coinvolgono o in apparenza profetici. Cammina e si «siede» a tavola con noi, ma non scherza con la nostra infantile religiosità. Egli desidera che i suoi figli eccedano in fiducia, tale da impreziosirsi «in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo» (Ef 4:13-15).

È Dio che stabilisce come e quando elargire i suoi doni e intervenire nella nostra vita, senza impoverire la libertà di scegliere di amarlo, regalandogli la nostra breve esistenza o di seguire alternative, con lo scopo di soddisfare «mille desideri» e perderci per le strade del mondo (2 Co 12: 11; Gs 24:15; 1 P 2:11). Egli agisce secondo criteri propri che non sappiamo debitamente distinguere. Il percorso storico collettivo e personale non dovrebbe essere analizzato secondo regole e conoscenze umane, dalle quali fluisce una visione limitata della «verità». L’itinerario per quanto sia instabile e colmo di imprevedibilità interagisce con il cielo, cioè con realtà a noi nascoste e impensabili. Pertanto non c’è dato di conoscere il modo in cui Dio lo gestisce. Delle volte, volgendo lo sguardo al passato riusciamo, con stupore, a discernere la sua attività.

Vi confesso che vorrei vederlo, abbracciarlo, ascoltare la sua voce e cogliere la sua volontà, come quella espressa nei confronti del lebbroso: «lo voglio, sii guarito», oppure quella emessa al paralitico: «alzati, prendi la tua lettiga e cammina» e poi le efficaci parole capaci di invalidare le tenebre della morte: «Lazzaro, vieni fuori». Niente di tutto questo! Il silenzio di Dio intimorisce, ammutolisce, ma senza defraudare la fiducia e la speranza. È proprio vero, «il giusto vivrà per fede» (Ga 3:11; Ro 1:17), nell’apparente immobilismo di Dio. All’incredulo, prodigioso e concreto mondo di Tommaso, Gesù disse: «Perché mi hai visto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20: 25-29).

 

Fra cielo e terra

Profezia? Attenzione, campo minato

 

Luigi Caratelli – Quando sono entrato nella Chiesa avventista nel 1974, mi sono subito trovato immerso nel grande mare della profezia. Erano anni, quelli, di fervore apocalittico che, notai in seguito, non era sempre positivo.

Ricordo benissimo una sorella che mi «ossessionava» con la sua ossessione di trovare un posto tra le montagne nel quale rifuguarsi nei giorni della «distretta finale». Capii, comunque, che la colpa non si doveva cercare nella teologia apocalittica avventista, ma nei problemi di ordine psichico di soggetti umani (non molti), e nella predicazione un po’ esagerata di altrettanti soggetti umani (un po’ più numerosi dei primi). Di solito portato alla prudenza, non mi sono lasciato contagiare dalla «smania dei segni». Soprattutto, non ho mai ritenuto utile – più che mai nella chiesa – di rispondere a un’azione con una reazione, senza aver avuto basi solide per agire.

Per quanto riguarda il tema in oggetto, le profezie, ho notato che alla predicazione «terroristica» (mi si perdoni l’immagine simbolica, di certo impropria, ma efficace) del comparto profetico, si opponeva una reazione che definirei (anche qui esagerando nella scelta dell’immagine) da «artificieri». Una reazione anch’essa pericolosa quanto il suo opposto. Anzi, direi che nella situazione attuale sembra sia stata emessa una sorta di parola d’ordine, una nenia che si tramanda di padre in figlio; o, se si preferisce, da insegnante a studente: chi si occupa di profezia – viene detto – giocherebbe con la sfera di cristallo, si fascerebbe la testa prima di rompersela e dovrebbe dimenticare ogni discorso sui segni dei tempi, tanto – si aggiunge – quando le cose avverranno, accadranno e basta.

Vangelo, non profezia!
Gli artificieri, nel lodevole impegno di disinnescare bombe teologiche, ci dicono: «Occupiamoci solo del vangelo, dei poveri e dei bisogni della gente, anziché proiettarci in un futuro che non ci appartiene!».

Diciamo che, se dovessi scoprirmi, mi dichiarerei decisamente a favore degli artificieri; se non fosse per una loro illogicità. Se il vero verbo sarebbe quello che ci spinge a occuparci dei poveri, dei problemi sociali e del conforto spirituale, non comprendo come non potrebbe essere altrettanto nel solco dell’impegno cristiano colui che a tutte queste caratteristiche assomma anche quella dello studio delle profezie.

Rilevo, senza retorica, un pericolo: ci si sta impegnando troppo a spegnere i fuochi degli incendiari, senza accorgersi che si sta spegnendo anche il fuoco della profezia.

Per quale recondito motivo coloro che si occupano di profezia sarebbero avulsi dalle esigenze della quotidianità? Non è forse «profezia applicata» al quotidiano quanto l’apostolo Giacomo scrive nella sua lettera, proprio in riferimento alla situazione dei poveri? Leggiamo il testo: «A voi ora, o ricchi! Piangete… Ecco, il salario da voi frodato ai lavoratori che hanno mietuto i vostri campi grida… Avete condannato, avete ucciso il giusto» (Gm 5:1-6).

Giacomo proietta «negli ultimi giorni» una situazione sociale che, nonostante sia stata teatro drammatico di tutte le epoche, sarà ingestibile alla fine dei tempi. Stessa considerazione escatologica viene fatta dal Commentario Biblico Avventista. È una profezia che rende sensibile il credente alle esigenze di quanti sono stati «frodati» dal lecito «salario» per il lavoro «nei campi», da ributtanti moderni caporali.

Giacomo, e la teologia avventista, ritengono questo uno scenario da «fine dei tempi». La profezia si rivela nella storia e ci aiuta a interpretarla. Proprio per renderci cristiani attenti alle necessità dei nostri contemporanei. Quindi, la profezia ci distrae dal vangelo?

Aggiustamenti teologici
Ripeto, sono decisamente distante da quanti usano le profezie per ferire, più che a fasciare cuori. Ma mi sento lontano anche da quanti, per rimediare alle esagerazioni dei primi, escogitano – quasi sempre inconsciamente e con sincerità – rifacimenti, smussamenti che in fin dei conti danneggiano la verità.

Come l’ardita operazione messa in atto dagli editori del libro Il gran conflitto del 1996. Alla pagina 12, infatti, si scriveva: «Ciò che appare difficile da accettare nelle spiegazioni offerte da Ellen G. White è l’importanza attribuita al sabato come fattore scatenante di una persecuzione all’interno del mondo cristiano e il ruolo decisivo che in questi eventi giocherebbe lo spiritismo». Dovremmo anche noi correggere il tiro riguardo l’attendibilità delle profezie della White? Ci viene detto: «… come giustamente osserva in un articolo di Spectrum lo studioso avventista Jonathan Butler, occorre tener conto del contesto storico in cui Ellen G. White scrisse».

Anche gli articolisti di Spectrum, e gli editori italiani, dovrebbero tener conto del contesto storico, e non stravolgere le profezie stesse eliminando il loro contesto futuro. Insomma potè più Spectrum, in materia di profezie, che la stessa White, dato che il suo odore di Medioevo mai potrà competere con la novella teologia?

Mentre la scrittrice profetizza per gli ultimi giorni – non per i suoi – la rinascita dello spiritismo quale arma di Satana, poco prima del ritorno di Cristo, gli editori del 1996 si permettono di scrivere: «Tuttavia la congiura delle tre forze citate, prevista da Ellen G. White e plausibile al suo tempo, si rivelò ben presto improbabile… è difficile, attualmente prevedere una congiura cattolico-protestante-parapsicologica su un tema così poco sentito quale il rispetto del giorno del riposo. Ormai la società occidentale non è più una società di impronta religiosa come nel secolo scorso» – Op. cit., pp. 13, 14.

Da notare il contrasto: i commentatori di E. G. White annullano la sua profezia con un «pare difficile», oppure «pare improbabile», ecc., mentre lei, nel gran conflitto insiste sul fatto che «Dal punto di vista della ragione umana, tutto questo sembra impossibile».1

Il problema è proprio qui: ad alcuni pare «impossibile», perché fanno leva «solo» sulla loro ragione. Parlano sì di profezie, ma aggiungono i loro ragionamenti, con la scusa che interpretano meglio.

Ecco come, chi si carica dell’onere di essere un «artificiere» non deve commettere il tremendo errore di accomodare o aggiustare la visione profetica; di fatto annullandola.

La conoscenza aumenterà
Il Signore ha esplicitamente detto al profeta Daniele che il suo libro sarebbe stato compreso al tempo della fine (cioè dal 1844 in poi); ha aggiunto che la conoscenza delle profezie sarebbe aumentata proprio grazie allo studio degli scritti del profeta (Da 12:4). Daniele stesso non potè comprendere tutto ciò che gli era stato rivelato (giusto, quindi, contestualizzare ogni profezia); mentre (v.10), senza dubbi, «I saggi comprenderanno ciò che avviene» (è giusto, quindi, applicarsi allo studio contestualizzato delle profezie).

Se i magi, ad esempio, avessero seguito i consigli di chi invita a guardare altrove «senza rompersi la testa» con inutili elucubrazioni tanto «avverrà quando avverrà», non sarebbero mai giunti puntuali a Betlemme.

È invece accaduto il contrario: «Camminando (i magi, ndr) di notte per poter seguire la stella… ricordavano nel lungo cammino i detti tramandati e le profezie concernenti colui che stavano cercando. A ogni tappa, nelle ore di riposo, ristudiavano le profezie e si convincevano di essere guidati da Dio».2 I magi non erano solo guidati da una stella ma, prima ancora, da una profezia. Questi «sapienti», come li chiama E. G. White, rimasero fortemente delusi dalla «noncuranza» con cui sacerdoti e popolo accolsero la realizzazione del vaticinio. Scrive ancora E. G. White: «Alcuni di quelli che gli ebrei chiamavano pagani comprendevano meglio di certi maestri d’Israele le profezie della Scrittura su tale venuta».3

Erano i sacerdoti, i detentori della verità, i teologi che avrebbero dovuto essere pronti; invece rimasero spiazzati. Non guardavano dalla parte giusta; non insegnavano le cose che fanno vivere. I magi, invece, compresero. Compresero perché, come affermato da Daniele, erano «saggi» e «intelligenti», e «studiando il libro con cura» la loro «conoscenza» aumentò, anche se il processo durò centinaia di anni.

Noi, oggi, potremmo fare di meno? Non possiamo, per il semplice fatto che sono trascorsi più di 150 anni dalla proclamazione delle profezie che ci riguardano; siamo più vicini (non importa di quanto) al loro compiersi e proprio oggi non possiamo permetterci di guardare da un’altra parte. Anzi, sempre dagli scritti di E. G. White, apprendiamo che: «È necessario, come non mai, uno studio più accurato della Parola di Dio, e in modo particolare dei libri di Daniele e Apocalisse… La luce che Daniele ricevette dal Signore era stata soprattutto per gli ultimi tempi».4 «Il popolo di Dio deve studiare e capire queste profezie. La verità non è nascosta ma chiaramente predetta e ci dice cosa avverrà nel futuro».5  Ma, soprattutto: «I giovani dovrebbero comprendere queste cose e sapere quello che accadrà prima della fine della storia. Questi eventi riguardano il nostro bene eterno e perciò insegnanti e studenti dovrebbero prestare maggior attenzione».6

Dovrebbero prestare «maggiore attenzione», non spegnere i fuochi.

Quando Gesù, dopo la sua risurrezione, incontrò i viandanti di Emmaus, si stupì del fatto che erano «insensati e tardi di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette» (Lu 24:25). Insensati e tardi è l’esperienza diametralmente opposta rispetto a coloro che sono «saggi», «sapienti», «intelligenti» perché studiano le profezie «con cura». Non sono né incendiari né artificieri.

Le donne andarono al sepolcro nonostante questo fosse vuoto. Era vuoto perché la profezia si era realizzata. E cercarono i «segni dei tempi»; cercarono il Maestro, contro ogni evidenza.

Facendo guardare il popolo da un’altra parte, gli artificieri lo distraggono sino a condurlo lontano dalla profezia; fino a dissolverlo nel magma del «così fan tutti». Fino a frantumare l’identità.

È, comunque, mia convinzione che la chiesa abbia bisogno degli «incendiari» che sappiano infiammare i cuori; ma anche degli «artificieri» che sappiano spegnere ardori esagerati: la chiesa ha bisogno degli uni e degli altri, purché si lascino moderare dallo Spirito del Signore.

L’avventismo è nato nella discussione e nel confronto fraterno fra le sue diverse anime. Non potrà essere diversamente per l’oggi.

Note

1 E. G. White, Il gran conflitto, p. 475.
2 La speranza dell’uomo, 1978, p. 34.
3 Idem, p. 19.
4 Testimonies to Ministers, 1896, pp. 112,113.
5 Notebook Leaflets, 1903, vol. 1, , p. 96.
6 Testimonies for the Church, 1900, vol. 6, pp. 128, 129.

Fra cielo e terra

L’evangelizzazione è proselitismo?

Luigi Caratelli – Gesù disse: «Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate» (Mt 28:18-20).

Una commissione del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec), l’organismo che riunisce le diverse organizzazioni del movimento ecumenico moderno, nel 1970 produsse un documento in cui campeggiava la parola d’ordine «Common Witness» (testimonianza comune). Si ribadiva non solo l’impegno per il dialogo e la riconciliazione fra le diverse tradizioni cristiane, ma si sottolineava più decisamente il fatto che chiunque «critica… dottrine, credenze o pratiche di un’altra chiesa compie un atto di slealtà». Più specificamente si proibiva di chiamare idolatri quanti venerano icone, o la madonna e i santi; oppure di contrastare quanti credono nell’evocazione dei defunti.

Secondo tale dichiarazione, Gesù stesso avrebbe avuto seri problemi a insegnare «tutte quante le cose» che ha «comandato di insegnare ai suoi discepoli». Come pure Lutero sarebbe stato imprudente a criticare atteggiamenti e pratiche antibibliche. Problemi seri anche per coloro che avrebbero dovuto insegnare «tutte le cose» alle generazioni future, fino alla fine del mondo.

Certamente è giusto, se accetti di far parte di una «Comunità ecumenica», osservare le regole condivise. In questa ottica quindi non è giusto, né etico, partecipare alle riunioni del Cec con l’intento di portarsi a casa qualche pecora di altri ovili. Non si può fare, ed è giusto che sia così.

Ecco perché la Chiesa avventista non fa parte del Cec. Anche perché quando Gesù dice «fate miei discepoli», implicitamente invita a «fare proseliti».

Deve essere chiaro che essere chiamati a diffondere il messaggio di Cristo non ci autorizza a sciorinare, magari con aggressività, le dottrine che contraddistinguono la nostra denominazione; ma ci sprona ad avvicinare gli altri con il volto dell’accoglienza, della tenerezza, dell’amore, dell’interesse di Dio per le persone: cosa, purtroppo, non sempre tenuta in gran conto da chi dovrebbe rappresentare il vangelo totale.

Proselitismo: una parolaccia?
Per il Consiglio ecumenico delle chiese chi si prefigge di fare proselitismo, ossia di «fare discepoli» per Cristo (nel senso positivo dello stesso termine), va: «… contro lo spirito dell’amore cristiano, facendo violenza alla libertà della persona umana e distruggendo la fiducia nella testimonianza cristiana nella chiesa di origine. Il proselitismo è l’aspetto corrotto della vera testimonianza». Ossia, se io, avendone l’occasione, cerco di avvertire una persona – con il massimo rispetto – della pericolosità della idolatria sottesa alla venerazione delle «icone» o del culto della «madonna e i santi», commetterei «un atto di slealtà»? Oppure – sempre nel rispetto delle idee altrui – se mi capitasse di «contrastare quanti credono nell’evocazione dei defunti», mettendomi ancora nella posizione di chi «critica… dottrine, credenze o pratiche di un’altra chiesa», compirei sempre «un atto di slealtà»?

In sintesi: tutto quello che l’avventismo ha scoperto nel corso della sua lunga formazione teologica, deve considerarsi patrimonio che deve essere tenuto nascosto per non assommarsi tra gli operatori di «slealtà»?

Benissimo pensare in tal senso se – ripeto – in un consesso che ha adottato certe regole io mi comporti da «furbo», quindi da sleale. Ma, mi è parso di capire – spero sia solo una fallace impressione – che alcuni avventisti tendano ad applicare tale regola in qualsiasi contesto, anche quando non richiesto. C’è chi è diventato più buono e più lungimirante di Gesù stesso e, pur non partecipando mai a nessuna riunione del Cec, ha pensato che sia giusto «non pestare i piedi a nessuno», «non esporre le nostre dottrine», «occuparsi solo del sociale», «predicare solo il Cristo»; tanto, dicono alcuni, quel che conta è essere cristiani e non avventisti. Insomma hanno coperto d’un colpo il resto del vangelo.

Le priorità del Padre
È logico che sono cristiano perché annuncio, prima di tutto e più di ogni cosa, la grazia di Dio; ma proprio perché cristiano devo anche annunciare il resto, «tutte le cose» che il Signore ci ha comandato di insegnare. Anche il giudizio, che non è una pillola dolcificante, ma una grande preoccupazione di Dio: «Quando sarà venuto, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio» (Gv 16:8). Il pastore riformato Matthias Zeindler si chiede incuriosito come mai «Il giudizio finale di Dio… fa parte di quelle cose di cui nel panorama religioso contemporaneo si evita di parlare», e constata che «Il tema del giudizio è del tutto assente anche dall’attuale pratica ecclesiastica».1 Naturalmente Zeindler, nel bellissimo testo in cui raccoglie le sue riflessioni, ha cura di specificare che anche il giudizio è un atto di amore di Dio poiché liberatorio e in difesa dei deboli e degli ultimi.

Ma, è ancora nella preoccupazione di Gesù presentare il vangelo nel suo «pacchetto» completo, senza adulterazioni o sconti: «Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada» (Mt 10:34-37).

L’importante è saper impugnare la «spada» giusta. Che è sempre quella della carità.

Gesù non può esser barattato con i nostri «peluche» facenti funzione di sonnifero. Egli non è solo l’Agnello, ma anche il Leone di Giuda (Ap 5:5,6). Il più bel testo del vangelo, esposto perfino negli stadi di calcio da zelanti cristiani, ricorda che «Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna» (Gv 3:16); ma se si ha cura di leggere più avanti, al versetto 36 dello stesso capitolo, scopriamo che: «Chi crede nel Figlio ha vita eterna, chi invece rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui». È lo stesso Dio: agnello e leone. In nessun caso un «dio sonnifero» o «bonaccione»: non gli è permesso proprio dal fatto che è un Padre preoccupato di salvare, più che di giudicare e condannare.

Qualunque padre che vuole essere d’aiuto ai suoi figli è costretto a dire loro anche cose che non si dovrebbero dire, pur di salvarli. Al contrario, assumere le sembianze del «dio molle», non fa altro che perdere ciò che si voleva salvare.

Un posto per gli avventisti
I cristiani hanno, nel piano di Dio, una responsabilità stupenda e un posto straordinario. Gli avventisti non fanno eccezione, ma hanno ricevuto uno speciale favore da parte di Dio: comunicare al mondo l’ultimo suo messaggio d’amore. Ed è interessante notare che gli avventisti di oggi sono i discendenti di un grande movimento che ha visto protagonisti credenti delle più svariate fedi: ecumenismo profetico, direi. Oggi noi avventisti siamo i continuatori e i ripropositori – insieme a credenti di altre fedi – di questo «sogno di Dio»: chiamare un popolo per un tempo speciale.

Sì, perché è di questo che si tratta: saper leggere i segni profetici. Daniele annuncia una data, il 1844, oltre la quale non ci sono più date: ossia indica – per dirla con il teologo Ball – l’inizio «dell’ultimo degli ultimi giorni», o del «tempo della fine», se preferite variare ottica.

Non c’è più tempo, insiste il libro dell’Apocalisse. Ove si aggiunge che proprio i credenti dell’ultima chiesa profetica sono chiamati a predicare colui che viene a giudicare. A molti avventisti questo quadro «non quadra» più; nel senso che non si sentono più chiamati alla specificità. Sono convinti che si debba sciogliersi e confondersi – del resto come auspicato da Gesù – come il sale tra le pieghe della società. A essi basta questo: affermare le peculiarità avventiste dà loro fastidio.

E qui si giunge al nodo cruciale, al problema principe. Si tende a non predicare da «cristiani avventisti» perché c’è chi ha predicato l’avventismo con poche sfumature cristiane. Insomma dire che tal dei tali è la bestia apocalittica, pensando di riassumere così tutto il vangelo, ha messo sulla difensiva avventisti più sensibili, a tal punto che – nel gergo popolare, sempre utile – questi ultimi hanno rinunciato all’ «acqua sporca» (una predicazione aggressiva e poco rispettosa delle idee altrui), insieme al «bambino» (le verità indispensabili per i tempi ultimi).

D’altronde proprio l’agenda degli ultimi giorni, così come stilata in Apocalisse, prevede quale «predicazione ultima» nient’ altro che il «vangelo eterno». Anche perché, le cose utili indispensabili sono sempre predicate, in qualunque tempo, da cristiani attenti ai bisogni degli altri. Parafrasando Gesù, queste sono le cose che dovevamo fare (opere di bene), senza dimenticare le altre (l’annuncio di ciò che rende diversi).

Anche perché siamo responsabili non solo di quanto facciamo, ma anche di quanto non diciamo. In questo senso interpreto le parole di Ellen G. White, scritte a seguito di un sogno angosciante in cui persone di ogni ceto, ormai perdute, si rivolgevano agli avventisti dicendo: «Se eravate certi che queste cose sarebbero avvenute, perché ci avete lasciati nell’ignoranza?».2

Dire tutto ciò che ci è «stato comandato» produrrà un nuovo risveglio: «Dio – dice ancora Ellen G. White – ha dei discepoli nelle chiese protestanti e un gran numero nelle chiese cattoliche».3 E continua: «Ci sono molte anime che usciranno… dalle chiese… il cui zelo è molto superiore a quello di coloro che sono rimasti nelle fila di chi proclama la verità».4

Nota finale. Alla voce «proselitismo», l’enciclopedia Treccani riporta: «Attività svolta da una religione, un movimento, un partito per cercare e formare nuovi seguaci… L’attività missionaria è una forma organizzata del proselitismo». In nessun posto è detto che «Il proselitismo è l’aspetto corrotto della vera testimonianza», come afferma il Cec.

La Chiesa cristiana avventista non va a caccia di pecore di altri ovili, ma – è mia opinione personale e provocatoria –, non potrà mai smettere di «fare discepoli»; quindi, di fare proseliti per Gesù.

 

Note

1 M. Zeindler, Dio giudice. Un aspetto irrinunciabile della fede cristiana, Claudiana ed., Torino, 2008, pp. 5-8.
2 E. G. White, Manoscritto 102, luglio 1904.
3 Idem, Selected Messages, vol. 3, pp. 386, 387.
4 Ibidem.

La mia evangelizzazione è più evangelizzazione della tua!

La mia evangelizzazione è più evangelizzazione della tua!


Luigi Caratelli
– Dopo una conferenza, una mia amica mi disse: «Luigi, attento a usare correttamente le parole, poiché se per una persona hanno un significato per altre possono avere un significato opposto.

È assolutamente vero; e credo che lo stesso problema si ponga anche quando si scrive un articolo. Per cui, sarei dispiaciuto se le mie parole venissero travisate o mal comprese.

Sto riflettendo da molto tempo sul problema dell’evangelizzazione. Non ci sto solo riflettendo; ne sono pienamente implicato in azioni concrete. Ormai sono alla soglia della pensione e ho speso 40 anni della mia vita camminando con il Signore e facendo per lui quello che i suoi doni mi hanno permesso di fare, ovunque fosse necessario.

Quello che ho fin qui capito è che non esiste un metodo eccellente per evangelizzare, poiché l’evangelizzazione è portata avanti dagli uomini e, in definitiva, sono essi stessi a essere il metodo migliore. Dopo quattro decadi di impegno missionario ho anche capito che sussistono pregiudizi e falsi obiettivi che ritardano tremendamente l’opera evangelistica. Sempre a causa degli uomini. Comincerei raccontando una mia esperienza.

Non si dicono più certe cose!
Le torri dell’11 settembre si erano appena polverizzate, e il frastuono echeggiava anche all’interno della chiesa di Lungotevere Michelangelo a Roma. Ero stato invitato, per coincidenza, a tenere una serie di conferenze sulle profezie. A quel tempo utilizzavo anche parte del mio tempo in qualità di redattore del Messaggero Avventista; e con la Direttrice, Dora Bognandi, faticammo non poco a smentire fratelli e sorelle che ci inviavano messaggi e lettere, in cui esprimevano ferme convinzioni che Ellen White avesse previsto l’immane disastro di New York. Tutte fake-news, come si è soliti dire oggi: negli scritti di E.G. White non compare nulla al riguardo.

Così, in quella conferenza a Roma, espressi quanto dicevano i vaticini dell’Apocalisse circa una trasformazione in negativo della nazione statunitense; con tatto e convinzione. Quindi, rimasi sorpreso quando, al momento del dialogo in sala, un giovane pastore avventista appena laureatosi nelle facoltà di teologia, prese la parola e mi apostrofò dicendo: «Caro Luigi, queste cose non si possono più dire».

Una reazione poco etica per un pastore, dal momento che la sua bordata era stata sparata in presenza di un folto pubblico non avventista, che non avrebbe capito le «sottigliezze». Con tatto, e senza dubbio con abbondante dose di etica, risposi senza creare agitazioni nell’assemblea.

Che cosa avevo detto, dunque, di tanto fastidioso da provocare tale reazione? Semplice, avevo reso noto al pubblico che la profezia rendeva noto al mondo l’arroganza degli Stati Uniti, ben camuffati da «agnello che parlava come un dragone» (cfr. Ap 13:11)

Lo dicevo esattamente nel momento in cui il presidente della nazione più potente del mondo, per mezzo di pacchiane bugie, invadeva uno stato sovrano: l’Iraq. Certo, il dittatore Saddam non era uno stinco di santo, ma, dopo essere stato lungamente coccolato e aiutato proprio dagli Usa, nel 2003, non più utile, veniva neutralizzato con una fake-news: si mostravano alle Nazioni Unite fialette contenenti polverine da maghetti, spacciandole per armi chimiche del dittatore medio orientale. Una figuraccia che costò la carriera al generale Colin Powell e al suo emulo Tony Blair: entrambi dovettero chiedere scusa per le montature dei servizi segreti. Quelle fake-news costarono la vita a migliaia di esseri umani innocenti, molti dei quali bambini.

Bastava e avanzava per identificare il «falso profeta», come si usa dire nel nostro ambito, con gli Stati Uniti.

Lo dicevamo molto tempo prima
In quella conferenza dissi anche che il nucleo di giovani che fondarono il nostro movimento, già dal 1851 esprimevano l’opinione che quel «falso profeta» di Apocalisse fosse proprio l’America: quella cattiva e lontana dai progetti di Dio.

E i nostri pionieri, fidandosi della profezia, dicevano ciò quando l’America prendeva sonore batoste da un gruppo di intrepidi indiani delle praterie. I battaglioni di cavalleria americani venivano annientati dai pellerossa, e John Nevin Andrews affermava che i discendenti delle sfortunate «giacche blu» avrebbero conquistato il mondo. Spesso con arroganza.

Mi sembrava, allora, di aver detto qualcosa di straordinario; qualcosa di profetico.

Naturalmente continuai a dire «certe cose» e ricevetti apprezzamenti da chi quelle cose non le aveva mai sentite, e non ci trovava nulla di riprovevole a sentirle.

Come un interessato che, in una successiva conferenza nella città di Mestre, dopo aver sentito le stesse cose esposte giorni prima a Lungotevere, si alzò in piedi e mi disse: «Signor Caratelli, lei ha ragione. Come può una nazione libera come l’America, fare la prepotente con altre nazioni ugualmente libere?». Non trovava scandaloso che dicessi certe cose e, successivamente, decise di prendere studi biblici insieme alla figlia, presente alla conferenza.

L’evangelizzazione è un’altra cosa!
Sono da sempre convinto, come suggeriva la mia amica, che bisogna essere prudenti quando si comunica la parola. Soprattutto considerando il fatto che all’interno di ogni gruppo sociale – chiesa compresa – si sviluppano dinamiche di segno opposto che possono disgregare le relazioni: tra noi, inutile negarlo, convivono, e a volte si scontrano, integralisti e liberali.

Spesso un gruppo si assembla per reagire a una esagerazione del gruppo opposto. Si può diventare ultraliberali per spegnere gli ardori, e spesso le esagerazioni, di quanti sono convinti che fotocopiare i dieci comandamenti e inzeppare le cassette postali, sia il modo migliore per adempiere il mandato evangelico. Come ci si può irrigidire in posizioni fondamentaliste di fronte alle proposte di quanti ritengono che sia più evangelico non pestare i piedi a nessuno, non essere troppo «diversi», non affermare il proprio patrimonio teologico; dicono, questi ultimi, che bisogna essere solo cristiani e non avventisti.

Vittime di tali negative dinamiche – almeno fino a quando non c’è onesto e sincero confronto – sono quanti affermano che evangelizzare significhi solo fare studi biblici o conferenze pubbliche; oppure lavorare solo nel sociale, o nella proposta salutista e medica. Quando una proposta viene presentata come la panacea o il massimo della attendibilità, si è già su un terreno minato. Perché sostenendo che il «mio» è migliore del «tuo», che il mio dipartimento è l’unico vero interprete dell’azione missionaria, si arresta la spinta dell’opera, si frenano gli entusiasmi e l’azione comune.

Chi si esprime in contrapposizioni ed esclusioni rispetto ai metodi evangelistici, non tiene conto dell’unico vero e unico metodo scelto dal Signore per la sua Chiesa. Egli ha fornito i suoi figli di una gran quantità di doni, che si esprimono nella diversità di progetti, azioni, e quindi, dipartimenti.

Per il Signore non è mai esistito il problema se oggi si deve operare nel sociale anziché nella proclamazione classica del messaggio evangelico. Ogni proposta è utile per tutte le categorie di persone che compongono l’umanità.

Invece di sparare sciocchezze su cosa si deve o non si vede dire oggi, sarebbe meglio considerare la ricchezza dei nostri mezzi e fare in modo che non si parli più di «metodo», ma di persona.

Spesso i metodi falliscono non perché sono «obsoleti», ma perché chi li propone non è adatto; Dio non potrà mai benedire progetti che non rientrano nel suo piano, o che sono portati avanti da persone che Dio non ha qualificate.

Quando la persona – l’evangelizzatore – è in un continuo atteggiamento di «richiesta a Dio» su cosa dire e cosa fare, elimina molti problemi; e non è egli stesso il problema.

La persona consacrata a Dio, e non ai personali progetti, sentirà spesso cosa è giusto dire o non dire all’altro.

Dopo 40 anni di lavoro nell’opera del Signore, mi sento di dire che il successo nell’evangelizzazione non dipende tanto, o non solo, dai metodi, dipende dalle persone. Si può dire tutto, se tu sei il metodo, se tu sei colui o colei che ascolta la voce dello Spirito, unico che sa istruire su cosa dire al momento opportuno. Soprattutto quando, nell’elaborare progetti – indispensabili per una preventiva e giusta comprensione dei metodi – il primo posto lo si lascia ai consigli del Padre.

Ellen G. White scriveva che il messaggio medico sanitario – quindi, oggi, anche il sociale in tutte le altre sue espressioni e forme – è il braccio destro dell’evangelizzazione. Due braccia importanti: una armata della parola, l’altra a suo sostegno e supporto.

Capire ciò è il segreto del mandato evangelico; qualunque cosa si dica.

Una poesia racconta l’hospice

Una poesia racconta l’hospice

Maol – Pubblichiamo la poesia di Claudio Coppini, della chiesa di Firenze, che parla del luogo di cure palliative per i malati terminali. «Un breve scritto» afferma l’autore «che prova a raccontare un’esperienza vissuta nell’hospice, in 15 giorni d’incontro ravvicinato con Laura, una cara amica che ci ha lasciato una settimana fa. Una esperienza personale che può essere occasione di riflessione per ciascuno di noi».

Incontro in hospice
Attraverso la città caotica
del primo pomeriggio,
e porto con me pensieri pesanti.
Intorno tutto frulla, automaticamente:
alla fermata un autobus della linea pubblica
è preso d’assalto da studenti e lavoratori,
e non riesce a ripartire.

Un grosso fuoristrada rosso
ruggisce al semaforo, pronto a scattare.
Dalla parte opposta,
un giovane in sella alla sua moto
smanetta spazientito
per il verde che non arriva.

Due anziani sulle strisce, coraggiosamente,
sfidano la fiumana di macchine
tenendosi per mano.
Seduti sul marciapiede
un gruppetto di turisti, si disseta
e cerca tra i frettolosi passanti
uno sguardo di gentilezza
che gli faccia dono di un attimo
per ritrovare la bussola.

Ed ecco in arrivo un pensiero pesante,
che il cuore, stavolta intercetta
e gratta via dalla mente
per averlo tra le mani.
Pazientemente lo osservo
e un interrogativo mi incalza:
«Com’è che non c’è mai tempo
finché abbiamo tempo?».

Sono ormai vicino,
la strada si fa meno battuta,
il verde si riappropria
del suo spazio vitale,
ma i pensieri pesanti, restano.
Anzi, se ne aggiungono altri.

Passo l’ultima curva
e appare appena visibile il cartello
con la scritta: Hospice.
Sono arrivato a destinazione.
Il luogo è immerso in una natura viva,
quasi lussureggiante, ovattata;
qui gli uccellini, perfino loro,
cantano a bassa voce,
per non disturbare.

C’è lentezza e gentilezza in tutto,
morituri e operatori
sono inzuppati d’umanità
e comprensione;
le altre persone che incontri
sono piene di complicità e rispetto,
eppure una volta fuori dal cancello
non sono più così

Qui, per l’ospite
il tempo di una giornata può essere infinito,
anche se per lui il suo tempo è finito.
Suono il campanello,
risponde una voce, la porta si apre,
mi incammino verso le scale con delicatezza,
primo piano, camera numero 4.
Mi faccio coraggio prima di entrare nella stanza,
non so immaginarti.

Ti vedo, sei distesa sul letto, sembri immobile
provata dall’aggressione del male
degli ultimi due mesi
e dagli effetti collaterali delle chemio
Sei in un dormi veglia insolito per te.
Mi avvicino, apri gli occhi,
li tieni fissi nei miei,
tensione di sguardi.

Per un attimo un bagliore vivo di luce ci illumina.
Prendo la tua mano, caldissima, tra le mie,
al contatto sussurri il mio nome,
fai un cenno, intuisco, abbasso la testa,
mi accarezzi dolcemente la barba
una volta, due volte, tre volte.
Trattengo le lacrime e quelle carezze
che hai voluto donarmi,
promessa d’amicizia, che resiste.

I tuoi occhi ora, si fanno pesanti
anche i miei pensieri, rotti dalle lacrime
che scivolano giù copiose
insieme a un grazie per la nostra amicizia,
per averla nutrita nel tempo di verità.

L’hospice
non è luogo di confine tra chi è al di qua e chi al di là,
ma piuttosto, spazio etico che sa accogliere
con il sostegno delle cure palliative, anche presenza
incontro, emozioni, sentimenti
e quel non detto che può trovare qui
insperata via di liberazione
a volte mai vissuta prima.

Così prima di risalire in macchina
sento salire dall’anima
un’irresistibile necessità di ringraziare
con la preghiera più essenziale che conosca:
«Padre nostro accoglici nella pace del tuo abbraccio».

Claudio Coppini

 

Fra cielo e terra

Quando è Dio a dare le pagelle


Luigi Caratelli
– Ricordo vividamente un bellissimo seminario a Torre Pellice (TO), tenuto da un sociologo avventista che lavorava presso la chiesa mondiale, Gottfried Oosterwal. Nell’incontro in cui ci parlava della teologia dei doni, raccontò l’esperienza vissuta in una chiesa da lui visitata.

In quell’occasione, spiegava alla congregazione l’importanza di pregare affinché il Signore rendesse noto a ogni membro i propri doni. Una sorella, non riuscendo più a contenere la gioia, lo interruppe dicendogli: «Io ho scoperto qual è il mio dono!». L’oratore le rispose che al termine della sua esposizione avrebbe potuto dire tutto ciò che aveva in cuore, e riprese a parlare. Ma la sorella voleva a tutti i costi la conferma che il suo fosse veramente un dono, e interruppe Oosterwal per altre due volte. «Cosa potevo fare!» ci disse «Sospesi la mia relazione e la lasciai parlare».

La donna spiegò che il suo dono consisteva nello scrivere delle lettere. Al che Oosterwal ribatté che «teologicamente» era impossibile, poiché nelle liste dei doni riportate dagli autori del Nuovo Testamento quello dello scrivere lettere proprio non figurava. A questo punto si alzarono in piedi, a turno, almeno quattro persone e, rimproverando l’oratore, testimoniarono del fatto che, usciti dalla chiesa per svariati motivi, vi avevano fatto ritorno proprio grazie alle lettere che quell’umile sorella aveva continuamente inviato loro per sostenerle e incoraggiarle, svolgendo così un’opera pastorale fuori dai canoni. Ho scolpita nella mente la brillante conclusione di Oosterwal: «Da quel giorno, nella mia lista dei doni dello Spirito, ho inserito quello di “scrivere lettere”».

Il dono di essere pastori, predicatori, ma anche il dono di scrivere lettere. Certe qualifiche si conseguono sul campo, istruiti dal Maestro stesso.

Doni per tutti
Si prova difficoltà a relazionarsi con alcuni religiosi, soprattutto quando essi ricoprono cariche che li portano, in qualche modo, a prendere decisioni per gli altri. Religiosi di ogni confessione, nessuna esclusa. Una delle cose che non ho mai metabolizzato è la sicurezza di molte guide spirituali nel sentirsi punti di riferimento imprescindibili e dispensatori di verità, che blindano le loro certezze dietro una presunta superiorità di ruolo: tutti scippatori della gratuita grazia di Dio per ogni credente.

Anzi c’è chi ritiene che solo ai ministri di culto siano riservati certi ruoli importanti; e c’è addirittura chi ha difficoltà a riconoscere tale ruolo alle donne. Mi torna in mente il comportamento di un dirigente di chiesa che aveva come collaboratrice una giovane lettrice biblica: le vietò – ritenendolo sconveniente – di predicare dal pulpito in giorno di sabato, assegnandole – bontà sua – solo qualche meditazione la sera del venerdì.

Chi preferisce far fare tutto ai pastori, o chi è convinto che quanti sono forniti di un diploma o di una laurea in teologia offrano migliori garanzie di attendibilità rispetto a chi ne è privo ha, in parte, ragioni da vendere: ma sul piano puramente umano, e non sempre su quello dello Spirito che, si sa, soffia sempre «dove vuole». Spesso si dimentica la stupenda «teologia dei doni», a cui la chiesa avventista crede fortemente. È Dio che distribuisce doni e qualifiche, al di là delle facoltà di teologia. È sempre Dio a desiderare che le facoltà di teologia, da lui volute e benedette, possano preparare pastori che sappiano riconoscere e valorizzare gli immensi doni in fratelli e sorelle delle chiese che saranno chiamati a servire.

La teologia di Dio
Ellen G. White ha ripetutamente scritto parole confortanti per i tanti «outsider» che popolano le nostre comunità.

Bellissime e gravi sono le sue ammonizioni contenute nel libro La speranza dell’uomo: «Ai tempi di Cristo» ella dice «l’insegnamento era divenuto formale. […] La mente degli studenti si ingombrava di nozioni inutili, prive di valore reale. In questo sistema di educazione non si teneva conto dell’esperienza che si compie quando si accetta la Parola di Dio. Gli studenti, presi dall’ingranaggio delle forme esteriori, non trovavano il tempo e la tranquillità necessari per la comunione con Dio e non udivano la sua voce nel loro cuore. La loro ricerca del sapere li aveva fatti allontanare dalla sorgete della sapienza. […] La cosiddetta istruzione superiore era in realtà l’ostacolo maggiore per giungere alla sapienza» – Edizione del 1978, p. 40.

La frase con la quale E. G. White conclude il brano succitato dovrebbe essere scritta sui muri di ogni facoltà teologica: «Gesù non fu istruito nelle scuole della sinagoga» – Ibidem. Insomma, si può essere efficaci servitori del Signore anche con il poco che abbiamo, pur non avendo frequentato scuole di teologia.

Le scuole di teologia, come quelle dei profeti nell’Antico Testamento, sono sempre frutto dei piani di Dio per organizzare al meglio, e con competenza, la sua chiesa; ma la teologia deve essere sempre quella di Dio, non del teologo di turno che può anche sconvolgerne i piani.

Doni per rimanere uniti
Ringrazio il Signore, perché dalle nostre scuole di teologia sono usciti pastori «autorizzati». Ma sono anche convinto che le nostre chiese (oltre a tanti che non amano essere disturbati dal loro letargo spirituale) abbondino di «predicatori nascosti», che possono essere la linfa vitale di quelle comunità. A loro giungono come sostegno altre parole di E. G. White: «Il segreto del successo non risiede nella cultura o nella nostra posizione sociale. […] Coscienti della nostra insufficienza, contempliamo Gesù, sorgente di ogni forza e pensiero supremo […] I più deboli e umili potranno ottenere quel che i più grandi e saggi non possono raggiungere con le loro forze. L’aurea porta del cielo rimarrà chiusa di fronte agli orgogliosi e non si aprirà davanti ai superbi, ma si spalancherà al trepido bussare di un bambino». – Parole di vita, p. 282.

Le fa eco il grande predicatore James H. Taylor che afferma: «Tutti i giganti di Dio sono stati uomini deboli che hanno fatto grandi cose per lui perché contavano sul fatto che Dio era con loro». – goodreads.com

Credo che molti, giunti a questo punto, saranno stati sfiorati dal dubbio che ha suscitato la reazione di un mio caro amico pastore. Con lui ebbi uno scambio epistolare grazie al quale confrontammo le nostre idee in tema di profezie e di visioni teologiche. Nell’ultima email mi faceva notare, con convinzione, che gli sembravo allergico alla teologia e ai teologi. Niente di più lontano dalla mia sensibilità. Fuggo come la peste l’arroganza dello studioso «fai da te», che potrebbe fare a meno della teologia, anzi considero quest’ultima assolutamente indispensabile per poter dire qualcosa di importante sulle Sacre Scritture.

Soltanto che, nell’esperienza di ognuno che è in prima fila nel portare il vangelo, è bene dare la giusta precedenza alla persona di Gesù: per molti anni della mia vita mi sono prima premurato di «riempire» il mio cuore della sua presenza; solo in seguito ho «riempito» la mia biblioteca con un buon numero di testi di teologia.

Per perseguire il giusto sentiero della spiritualità, può essere vero anche il contrario: partire dalla teologia per giungere al Signore. Purché a nessuno venga in mente di dettare i tempi a Dio e indicargli i «reclutamenti» preferibili.

È Dio che dà le pagelle. Sempre.

 

Cosa ne farò di un libro chiamato Il gran conflitto?

Cosa ne farò di un libro chiamato Il gran conflitto?

Luigi Caratelli – C’è chi vorrebbe eliminare del tutto Il gran conflitto; chi auspica l’incenerimento dei capitoli più spinosi; chi risolverebbe la questione preventivamente già dall’introduzione, annacquando la carica esplosiva delle sue visoni profetiche; chi, per contro, vorrebbe che del volume di Ellen White restassero soltanto i capitoli più «spinosi» da utilizzare, irresponsabilmente, alla stregua di una «molotov» o di un nerboruto manganello con i cui eliminare designati nemici.

Partirei proprio da questi ultimi che, dicevo, irresponsabilmente fanno un uso improprio degli insegnamenti contenuti nel libro in questione. Quelle che seguono sono parole scritte dal pastore presbiteriano Augustus Nicodemus; esse rilevano un disagio che sorge da una errata interpretazione del mandato evangelico, da parte di credenti di ogni denominazione, anche la nostra: «Non c’è niente di cui vergognarci, se veniamo considerati pazzi a causa del messaggio della croce e della risurrezione che annunciamo… [Paolo] non voleva che i cristiani dessero al mondo motivi per essere chiamati pazzi, se non a causa della predicazione della croce. Purtroppo gli evangelici – o una parte di loro – non hanno dato ascolto alle parole di Paolo che è bene di non sembrare più pazzi di quanto non ci considerino già».

Poi Nicodemus, con parole taglienti, mette in risalto una piaga trasversale alle confessioni religiose: «Nell’ambiente evangelico» egli scrive «c’è tanta insensatezza, mancanza di saggezza, superstizione e cose ridicole, che finiscono per dare ai nemici di Cristo una frusta con cui colpirci. Siamo ridicolizzati, disprezzati, diventiamo motivo di beffa, non perché predichiamo Cristo crocifisso, ma per sciocchezze, stupidaggini e bazzecole, tutte fatte in nome di Cristo».1 Quindi: si può usare Il gran conflitto come corpo contundente.

Le giuste proporzioni
Senza volerlo, durante una predicazione, ho indispettito un membro di chiesa a tal punto che è uscito dalla porta e non è mai più rientrato. Avevo semplicemente evidenziato le giuste proporzioni che spettano ai temi della nostra fede, affermando: «Non sono whitiano, ma cristiano». Avevo sostenuto ciò che Ellen G. White ha sempre affermato di se stessa: «Io sono una piccola luce che porta alla grande luce», mettendo così in risalto la fonte unica della fede avventista: la Bibbia. Qualcuno non aveva chiaro in mente le «giuste proporzioni», e questa non era certamente E. G. White; tantomeno io.

Ma quali «proporzioni» Ellen G. White dava al «suo» libro Il gran conflitto?

Quelle che – notava lei stessa – non erano parto della sua mente, ma proposito esplicito di Dio. Così la scrittrice lo evidenziava nei suoi numerosi scritti: «In questo libro è contenuto un appello di Dio diretto a ogni essere umano… è la voce di Dio che parla al suo popolo ed essa avrà sulle menti degli uomini una influenza che altri libri non hanno».2 Quindi, E. G. White si espose pubblicamente rivelando: «Considero il libro Il gran conflitto più prezioso dell’oro e dell’argento, e desidero profondamente che sia dato alla gente».3 E ancora: «Il Signore ha dichiarato che questo libro deve essere diffuso su tutta la terra».4

Con buona pace di quanti, invece, vogliono far sparire il libro dalla terra.

I frutti
Nel gennaio 2017, la nostra rivista Avdentist World pubblicò una toccante esperienza. Si narravano le vicende di un giovane polacco, Maerk Micyk, coinvolto nello spaccio e nell’uso di droghe. Faceva parte di una banda di teppisti i cui componenti hanno fatto una brutta fine: uno è morto e l’altro sconta sei anni di prigione. Micyk toccò il fondo. Aggredito da una bruciante disperazione, e non avendo il coraggio di suicidarsi, trovò un modo «alternativo» per placare le sue ansie: cercò nella Bibbia la data della fine del mondo che – pensava – se fosse giunta presto, lo avrebbe in parte consolato, perché – sempre secondo il suo ragionamento – le sue sofferenze avrebbero avuto un temine preciso, e forse vicino. Naturalmente nella Bibbia non trovò la data della fine del mondo, ma solo dei confusi «segni dei tempi».

Un giorno, mentre mangiava un panino in auto, fu colpito dall’insegna di un negozio: Libreria segni dei tempi. Si disse: «Che strano! La stessa frase che ho letto nella Bibbia». Decise di entrare e di chiedere un libro sulle profezie di Nostradamus, convinto che, più della Bibbia, il veggente medievale avrebbe potuto dargli una risposta precisa. Il commesso, che era avventista, gli rispose di non vendere quel genere di libri, ma che, in alternativa, ne aveva uno che parlava anch’esso di profezie: Il gran conflitto. Così cominciò l’esperienza di Micyk, alla presenza del libro che Ellen G. White e Dio ritenevano dovesse essere letto da ogni persona al mondo. «Lo lessi» confessò il giovane teppista «meravigliato dai dieci comandamenti e dalle lotte che hanno fatto i Riformatori per esaltare la Bibbia. Ho appreso la novità del sabato. Ho capito che fumare faceva male».

Micyk non avrebbe mai sospettato che sul suo cammino si sarebbero parati davanti ancora gli avventisti. Mentre camminava per le vie della sua città, lesse di nuovo una insegna, questa volta su un manifesto: Piano dei 5 giorni per smettere di fumare.

Il giovane entrò, fece amicizia con i conduttori. Fu invitato a un grande raduno di giovani avventisti e lì sentì un appello che lo interpellava personalmente.

So che le storie sono fatte per attendere il finale. Eccolo: Marek Micyk – il teppista, il drogato – è diventato un pastore avventista e ora è il direttore nazionale dei Ministeri Avventisti per la Gioventù della Chiesa polacca. Interessante il titolo dell’articolo di Adventist World in cui è stata pubblicata la sua intervista: «Come il Gran Conflitto ha salvato uno spacciatore di droga polacco. Il mio cammino dalla droga a direttore della gioventù avventista».5 Quindi: si può usare Il gran conflitto per convertire.

Il libro che ci guiderà nel futuro
Sto dando studi biblici a un giovane che lavora in Rai. È rimasto abbagliato dalla parola di Dio. Ha scoperto da solo le stupende profezie di Daniele, tanto che ha proposto ai vertici del canale «Rai Storia» una serie di trasmissioni sui temi della Bibbia e della profezia.

Una sera, mentre sciorinavo all’attento esame della sua mente i punti cardine della fede cristiana, mi ha detto di aver letto, per conto suo, cinque volumi dell’opera di Ellen G. White, e di essere stato particolarmente colpito proprio da Il gran conflitto. In uno dei nostri incontri mi ha raccontato che, letteralmente colpito dalla forza del capitolo riguardante i frutti – passati e futuri – dello spiritismo, non ha resistito alla tentazione di farlo leggere a una sua amica. Colpita anche lei dalla forza profetica di quelle parole gli ha restituito il libro commentando: «È veramente straordinario quanto scrive questa donna!».
«Certamente. Se si pensa che lo ha scritto nell’800», le ha risposto.
«Come nell’800?» ha ribattuto l’amica «Pensavo fosse stato scritto ai nostri giorni!».
Eppure c’è chi, il libro, vorrebbe farlo sparire dalla circolazione.

Conclusioni
La Chiesa cristiana avventista è conosciuta nel mondo per l’enormità di impegno e strutture – in proporzione alle sue forze numeriche – che mette in campo in favore del vangelo. Dio ha dotato questa Chiesa di doni inimmaginabili: tutti ugualmente validi e con un grande potenziale. Abbiamo opere caritative, sociali, culturali: tutte doni dello Spirito.

La Chiesa è inondata da una «molteplicità di doni»; per questo motivo è lo Spirito Santo che ci consiglierà quale di esso offrire alla persona che abbiamo davanti e alla quale vogliamo comunicare la sua grazia: può essere un pezzo di pane, un vestito, come pure un libro.

Tra i doni di Dio c’è proprio l’immensa opera delle pubblicazioni, e quindi Il gran conflitto, anch’esso dono della stupenda grazia di Dio.

L’entusiasmo sproporzionato verso questo libro, come pure l’intento insensato di cancellarlo dalle librerie, sono progetti che Dio non ha contemplato nella sua opera.

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Note

1 A. Nicodemus, L’ateismo cristiano, BE edizioni, Firenze, 2016, pp. 13,14.
2 E.G. White, Colporteur Ministry, p. 128.
3 Lettera del 1911 a Francis Walcox, due mesi dopo che questi aveva assunto la carica di direttore della Review and Herald.
4 E.G. White, Op. cit., p. 124
5 A. McChesney, Adventist World, gennaio 2017, pp. 6,7.

 

La voce della Memoria

La voce della Memoria


Maol
– Abbiamo ricevuto e volentieri pubblichiamo la poesia di Claudio Coppini, della chiesa di Firenze e speaker della radio Rvs. «Non mi era mai successo prima» ci scrive «ma sulla soglia della Giornata della Memoria di questo nuovo anno così volatile e ambiguo, ho chinato il capo davanti al ricordo e al richiamo dello Yad Vashem, e ho provato a lasciare, anch’io, una piccolissima traccia di memoria».

La voce della Memoria

La voce della Memoria
è richiamo di verità.
Non usa parole d’ordine
non tiene comizi
non attizza gli animi.

Non deve vincere,
gli interessa, convincere.
Quando si presenta,
in pochi la riconoscono.
perché bisogna avere cuori generosi
e il coraggio di poggiare
l’orecchio sul binario.

La voce della Memoria
è vivo richiamo dal passato
che ha cuore il presente…
Chi la denigra, mente
sapendo di mentire.
Ma lei non devia, è resiliente,
segnata a fuoco dalle cicatrici della storia
è pronta a generare nuovi anticorpi

La voce della Memoria
è canto lucente
che cerchia con l’evidenziatore giallo
le tenebre del razzismo
e lo fa apparire nudo
sotto gli occhi del popolo.

Claudio Coppini

Il mistero di Orione

Il mistero di Orione


Luigi Caratelli
– Numerose civiltà conservano nelle loro produzioni letterarie degli accenni alla costellazione di Orione. Così come in ogni civiltà (più di 500 in ogni parte del globo) si sono conservate narrazioni di un diluvio universale.

Secondo Lokamanya Tilak, in India, e nel Popol Vuh, libro sacro della religiosità maya, si hanno cenni a Orione. Per la dott.ssa Phillis Pitluga, astronoma presso il Planetario Adler di Chicago, stessi riferimenti alla costellazione si trovano nella grande figura del Ragno, incisa sul terreno degli altopiani di Nazca, in Perù. Dopo lunghi studi computerizzati, la dottoressa ha scoperto che la figura sia un diagramma terrestre per determinare, nel corso delle epoche, il variare delle declinazioni della cintura di Orione.

Anche l’Egitto, la cui religione delle origini era più stellare che solare, dava grande importanza a Orione, chiamato Sau.

Faulkner afferma che questa costellazione era una delle dimore ultraterrene dei defunti faraoni, tramutati in stelle. Anche Mercer, nel suo Religion of Ancient Egypt, rileva che il re morto era identificato con Osiride, che a sua volta si identificava con la costellazione di Orione. Per gli egiziani la porzione di cielo ove campeggia Orione era chiamato Duat (concetto simile al cristiano regno dei cieli). Si legge sui Testi delle Piramidi: «Il Duat ha afferrato la tua mano nel luogo dove si trova Orione» (PT 802); e ancora «Vivi e sii giovane di fianco a tuo padre (Osiride), di fianco a Orione nel cielo» (PT 2180).

Il fiume celeste
Sempre dai Testi delle Piramidi siamo informati che gli Egiziani, nella topografia del loro Duat, sia celeste che terrestre, parlavano di «vie d’acqua» da attraversare. Essi erano inoltre convinti che il Nilo rappresentasse sulla terra il «fiume celeste», cioè la Via Lattea; così come il Gange la rappresentava in India.

Il faraone defunto veniva proiettato in cielo a raggiungere la Via Lattea, che doveva attraversare per entrare nella dimora eterna. Così spiegano i testi originali: «Possa tu sollevare me (il re defunto) e innalzarmi alla serpeggiante Via d’acqua. Possa tu pormi fra gli dei, le stelle imperiture» (PT 1759)

Stessi riferimenti «teologici» alla funzione della Via Lattea avevano gli Orfici e i Pitagorici; gli indios Sumo dell’Honduras e del Nicaragua; i Pawnee e i Cherokee convinti che i defunti sono accolti da una stella all’estremità settentrionale della Via Lattea; i nativi nordamericani che credevano che la Via Lattea fosse il «Sentiero degli Spiriti».

In modo analogo anche i popoli dell’America centrale svilupparono un’architettura sacra basata sulle costellazioni. Secondo l’archeologo Robert Cormack,«l’ultima capitale dei Maya Quichè, degli altopiani guatemaltechi, è stata progettata secondo lo schema celeste riflesso dalla forma della costellazione di Orione». Mentre il prof. Stansbury Hagar, segretario del Dipartimento di Etnologia al Brooklyn Institute of the Arts and Sciences, è convinto che Teotihuacan, antica città azteca a 50 chilometri a nord-est di Città del Messico, è stata costruita con lo stesso intento.

In questo sito, come a Giza, si trovano tre piramidi, affiancate dal lunghissimo «Viale dei Morti». Secondo Hagar, il viale doveva rappresentare proprio la Via Lattea e l’intero sito era stato progettato come una sorta di carta del cielo che «riproduceva sulla terra una presunta pianta celeste dello spazio dove dimoravano le divinità e gli spiriti dei morti».

Come in Egitto, anche a Teotihuacan le tre piramidi della Luna, del Sole e di Quetzalcoatl sono posizionate a rappresentare la cintura di Orione.

Orione e la Bibbia
La Bibbia, benché stigmatizzi l’astrologia, menziona Orione (Giobbe 9:9; Giobbe 38:31; Amos 5:8; Isaia 13:5-10). In Isaia è scritto: «Urlate, poiché il giorno dell’Eterno è vicino; esso viene come una devastazione dell’Onnipotente… Ecco, il giorno dell’Eterno giunge… Poiché le stelle e Orione non faran più brillare la loro luce».

In molte Bibbie, la parola Orione viene tradotta con «costellazioni», ma negli antichi testi della Settanta è correttamente riportato «Orione».

Quindi, Orione è associato al ritorno del Cristo sulla terra.

Ellen G. White, proprio allo scadere della profezia delle 2.300 «sere e mattine» di Daniele, ricalcando l’avvertimento di Isaia, scrive nel libro Early writings (Primi scritti): «Apparvero grosse nubi oscure e cozzarono le une contro le altre. L’atmosfera si squarciò e si arrotolò all’indietro, allora noi potemmo guardare attraverso lo spazio aperto in Orione, da dove proveniva la voce di Dio. La Santa Città scenderà attraverso questo spazio aperto».

In realtà, commentano gli scettici, tale informazione E. G. White l’avrebbe ricevuta da Joseph Bates; quindi, concludono, non vi si deve fare troppo affidamento. Il riferimento a Orione risulterebbe essere soltanto, per usare una espressione coniata all’occorrenza, una «leggenda avventista».

Ma se ciò risulta vero – ossia che sia stato Bates a parlare di Orione a Ellen G. White -, bisogna ringraziare lo stesso Bates, perché è stato sempre lui a informare i coniugi White che bisognava osservare il sabato biblico, e porlo a fondamento della fede riscoperta. A ogni modo nell’uno e nell’altro caso (Orione e sabato), il Signore stesso si è premurato di confermare e stabilire la veridicità delle due informazioni. E questo, se me ne sarà offerta l’occasione, lo posso dimostrare inconfutabilmente.

Il vero problema è che, all’interno della nostra chiesa, alcune guide spirituali tentano di dimostrare che gli scritti di E. G. White sono da considerarsi quali produzioni di una «maestrina»; tutt’al più di un’esperta educatrice. Si dimentica, spesso, che era un profeta scelto da Dio. Il caos si è generato in considerazione del fatto che la figura e l’opera di Ellen siano stati spesso considerati in modo non attinente alla realtà dei fatti. È perfettamente comprensibile che a quanti ne hanno esagerato il ruolo si siano opposti, per reazione, dei sostenitori contrari.

Il problema quindi non è Orione, ma il fatto che in molte nostre chiese ci sono credenti che non solo non hanno mai letto una sola pagina degli scritti di E. G. White, bensì, cosa peggiore, da lungo tempo non leggono più neppure la Bibbia. Poi ci si stupisce che ci sia chi predica e chi crede che lo Spirito Santo sia un semplice vento, o che si possa allegramente concepire un inciucio tra evoluzionismo e creazione. O che forme pericolose di New Age diventino patrimonio esperienziale di molti avventisti.

Altro che Orione. Su questi ultimi temi mi piacerebbe soffermarmi. Tuttavia, poiché l’articolo aveva tale funzione, ritorniamo a Orione.

Un indizio della possibile scientificità delle affermazioni a sostegno di una costellazione quale possibile teatro di eventi escatologici è quello della caratteristica peculiare di Orione: si trova lungo l’equatore celeste ed è quindi visibile a tutte le latitudini della terra. Gli studiosi hanno riconosciuto che pur essendo una delle costellazioni più maestose e riconoscibili del cielo notturno, non ha mai trovato posto nello zodiaco moderno.

Un altro indizio è l’etimologia della parola che individua la stella più luminosa della costellazione: Betelgeuse. Gli studiosi ci informano che è una parola di derivazione ebraica, ed è composta da bethel (casa di Dio) e jahase (fuoco divino). Quindi, Betelgeuse potrebbe significare all’incirca «Fuoco divino nella casa del Signore».

Che avessero ragione gli antichi quando, trasmettendoci informazioni su Orione, ci rivelavano una verità insieme scientifica e religiosa, anche se spesso paganizzata? Cioè che la costellazione è la porta d’accesso all’eternità, al regno dei cieli, alla casa del Padre?

Gesù, parlando ai suoi discepoli della sua morte (che è sempre un sonno, non una incarnazione tra le stelle), li preparava all’evento rincuorandoli con delle promesse; in una occasione menzionò proprio una dimora, delle case, che sarebbe andato a preparare, naturalmente dopo la sua ascensione. Leggiamo il testo nel Vangelo di Giovanni: «Il vostro cuore non sia turbato… nella casa del Padre mio ci sono molte dimore, io vado a prepararvi un luogo… E quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò, e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi» (Gv 14:1-3).

Da qualche parte, nell’universo fisico, esiste realmente una «dimora celeste». Che per andarci si debba passare o no per Orione, diventa assolutamente irrilevante. Ma se il Signore, padrone dei cieli, abbia stabilito così, è più che rilevante: è magnifico.

 

Luigi Caratelli, produttore radiofonico, mette a disposizione di quanti ne faranno richiesta il suo materiale (video, audio, pdf, power point) all’unica condizione che non venga modificato. I temi trattati sono: l’archeologia biblica, i fenomeni paranormali alla luce della Bibbia, i segni dei tempi secondo gli studi più recenti, tutti gli studi sui libri di Apocalisse e Daniele, alcune riflessioni prettamente spirituali, materiale su argomenti vari come, per esempio, uno studio approfondito storico-teologico del perché i magi giunsero a Betlemme fidandosi dell’antica profezia di Balaam e del profeta Daniele in Babilonia. Quest’ultimo studio (per ora solo in audio, poi sarà anche in power point) può essere richiesto subito, dato che racconta la vera storia del Natale. Queste risorse possono essere utilizzate per cultura personale, per essere distribuite a parenti, amici e interessati, o per tenere in casa delle vere e proprie riunioni, come alcuni già fanno. Tutto il materiale è gratuito, basta richiederlo a l.caratelli@avventisti.it

 

(Immagine: https://pixnio.com/space/orion-nebula-space-galaxy)

 

 

Il mistero di Orione

Basta con Orione?


Luigi Caratelli
– Per André Reis,1 articolista della rivista avventista Spectrum, non è il caso di usare l’artificio letterario dell’interrogativo. Per lui di Orione non si dovrebbe proprio parlare. È così grave? Per quale motivo?

In realtà Reis se la prende, giustamente, con la moltitudine di profeti e profetesse che stanno tormentando la nostra Chiesa e creando caos e divisioni ormai da troppo tempo. Lo seguo pienamente, e con lui pienamente concordo.

Nella pagina di Spectrum l’editorialista stigmatizza, giustamente, gli sprovveduti che si dilettano a profetizzare scenari improbabili e vere proprie bufale; il più delle volte con l’ausilio dei social. Il campionario di stupidaggini fatte prontamente rimbalzare su Facebook è sconcertante: si va dalle corna sataniche di papa Francesco a Manila, all’improvvida affermazione di un Trump promulgatore della legge domenicale, all’ormai sempre più gettonato microchip; senza farsi mancare accuse a dirigenti e pastori di ogni estrazione. Come nel caso del presidente della nostra Conferenza generale, Ted N. C. Wilson, indicato come un gesuita travestito allo scopo di distruggere la nostra Chiesa. Comprendo Reis, e solidarizzo con lui, dato che anch’io, per nulla presidente di niente, mi sono beccato l’epiteto di massone travestito. Per questa accusa, via Facebook, ho perso alcune amicizie. Qui in Italia, non in America.

Poi, il fratello di Spectrum, se la prende anche con chi profetizza scenari da fine del mondo, distorcendo profezie bibliche a ogni eclisse o evento climatico. Perché proprio questo era il pretesto per denigrare quanti parlano di Orione. E qui, non seguo più Reis.

Non so in America che tipo di persone parlino di Orione né con quali argomentazioni sostengano le loro tesi. In Italia, senza che me ne giunga alcun vanto e tantomeno delle lodi, di Orione parlo quasi soltanto io. Quindi, non rischio di essere annoverato tra i massoni e i gesuiti, ma tra gli allucinati che perdono tempo a guardare le stelle.

Ritengo che una, seppur secondaria e minima, teologia «orionica» non faccia sfigurare nessuno. Anzi. Mi piace pensare alla teologia avventista come a una stupenda corona, tempestata da ogni sorta di gemme. In essa spiccano i diamanti delle grandi verità salvifiche, proprio sulla cima. Poco più sotto, altri gioielli indispensabili: le opere sociali, quelle di misericordia; le iniziative sanitarie, ecc. In maniera defilata, ma utili allo stupendo ornamento di questa Chiesa, compaiono qua e là degli «impreziosimenti»: per esempio «anche» Orione. Gli elementi indispensabili alla salvezza dominano; quelli che impreziosiscono il cammino della salvezza, fanno da supporto. Potrebbero non esserci, poiché Orione e altre perle minori non sono necessarie alla salvezza. Ma ci sono, e ravvivano lo sguardo.

Non solo lo sguardo.

Una bambina di 7 anni, avendo sentito parlare in campeggio – non da me – delle peculiarità e del messaggio che la costellazione di Orione veicola, è tornata a casa entusiasta; non per le stelle in sé, ma per il riferimento al ritorno di Gesù che di quel messaggio è il tono più importante. Ha contagiato tutti; soprattutto il nonno, che si sarebbe ammalato di lì a poco. Lei, con l’ingenuità (che spesso è teologia allo stadio iniziale) e la freschezza che tutti i fanciulli sanno esprimere, ha riempito di speranza la testa e il cuore del nonno, parlandogli di un Salvatore che un giorno varcherà proprio la porta cosmica della regione di Orione. Lei ci credeva. Il nonno l’ha seguita nel sogno, e proprio a pochi momenti dalla morte la sua mano si è alzata puntando il dito in direzione del cielo. Lui, non solo per far contenta la nipotina, indicava con fede Orione.

L’ultimo giorno di una serie di conferenze, ho illustrato il messaggio intrinseco di Orione; con tante immagini. Quel giorno le persone non finivano più di entrare. Riempirono una grande sala. Il pastore del luogo mi disse che una gran parte di intervenuti erano tutti membri di una congregazione locale di avventisti della Riforma. Al termine della conferenza, molti di loro mi chiesero, anch’essi stupiti dalle peculiarità di Orione, materiale di ogni genere. Quella conferenza, piccola gemma di un più importante e grande insieme, permise a una quindicina di quei fratelli di riprendere il cammino all’interno della chiesa madre.

Al termine di un campeggio per i giovani, nel quale – stavolta proprio io – parlai, tra le tante cose, anche di Orione, dei ragazzi tornarono a casa carichi di sorprese teologiche; ci fu chi chiese studi biblici e si battezzò subito dopo. Non erano stati proiettati tra le nuvole, ma avevano aderito alla terra per essere testimoni di Gesù.

Solo una leggenda?
Certo, come disquisisce Reis, che definisce Orione la «leggenda avventista», si può ragionare come lui il quale si dice convinto, non si sa da chi, che: «Per quanto riguarda la tradizione avventista su Orione, le basi dell’astronomia negano che ci sia un posto nella linea degli eventi della fine dei tempi. La sua nebulosa da sola potrebbe contenere 60 milioni di sistemi solari; la sua luce viaggia per 1.500 anni prima di raggiungere la terra. Per essere visibile in qualunque parte all’interno di Orione, l’entourage di Gesù dovrebbe avere un’ampiezza tale da poter essere notato da questa distanza inconcepibile e, tuttavia, dovrebbe rimanere all’interno della velocità della luce per essere effettivamente visto lì. Ma questo crea un enigma: a quella velocità, ci vorrebbero 1.500 anni per raggiungerci! Per non parlare della nozione piuttosto incredibile di Gesù e degli angeli che viaggiano realmente nel tempo-spazio».

Tutto qui l’armamentario per dissolvere le illusioni su Orione?

La bambina e suo nonno invece credevano, senza porsi problemi astronomici, che Gesù risolve il dilemma in questione, con uno «schioccar delle dita»; senza che la luce, con la sua misera velocità, possa essergli di ostacolo.

Insomma, c’è chi sa vedere anche le più piccole gemme.

Quello che mi fa impressione, invece, è come certo intellettualismo e certo liberalismo possano fare tanto male quanto le esagerazioni dei profeti improvvisati che i primi tentano di combattere.

Prossimamente, vorrei parlare solo di Orione. Nel giusto modo; perché nessuno dica «basta» nel modo sbagliato.

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1 – Reis André, “Shaking the Powers of Heaven: A Total Solar Eclipse and Adventist Eschatology, Spectrum, 18 agosto 2017

Luigi Caratelli, produttore radiofonico, mette a disposizione di quanti ne faranno richiesta il suo materiale (video, audio, pdf, power point) all’unica condizione che non venga modificato. I temi trattati sono: l’archeologia biblica, fenomeni paranormali alla luce della Bibbia, i segni dei tempi secondo gli studi più recenti, tutti gli studi sui libri di Apocalisse e Daniele, riflessioni prettamente spirituali,  materiale su argomenti vari come, per esempio, uno studio approfondito storico-teologico del perché i magi giunsero a Betlemme fidandosi dell’antica profezia di Balaam e del profeta Daniele in Babilonia. Quest’ultimo studio (per ora solo in audio, poi sarà anche in power point) può essere richiesto subito, dato che racconta la vera storia del Natale. Queste risorse possono essere utilizzate per cultura personale, per essere distribuite a parenti, amici e interessati, o per tenere in casa delle vere e proprie riunioni, come alcuni già fanno. Tutto il materiale è gratuito, basta richiederlo a l.caratelli@avventisti.it

 

(Immagini: https://pixnio.com/space/orion-nebula-space-galaxy)

 

 

Una poesia per ricordare

Una poesia per ricordare


Claudio Coppini
– Ho scritto la poesia «5 novembre» per raccontare un momento, nonostante tutto gioioso e lungo 63 anni, tra me e la mamma, e che resterà come ricordo di noi. Un piccolo, grande dono.

5 novembre
Son venuto a trovarti
alla grande casa
delle donne «smemorate»
con i dolcetti squisiti
delle grandi occasioni.
Sei seduta accanto alla finestra
che dà sul giardino,
sembri distratta
eppure come per magia
ti volti, mi guardi ti guardo
e sboccia largo il sorriso.
Mamma è il 5 novembre
ti ricordi?… capisco,
non ha importanza.
Anche se la memoria
è volata via,
quel sabato antico
che mi hai messo al mondo
è ancora qui, vicino-vicino
per sussurrarti
I love you.

 

La chiesa avventista in Messico ancora scossa per il terremoto

La chiesa avventista in Messico ancora scossa per il terremoto



EudNews/Maol
– Gli avventisti in Messico sono ancora alle prese con la devastazione del terremoto di magnitudine 8,2, che ha colpito la costa meridionale del Paese, lo scorso 7 settembre. 98 i morti al momento, centinaia i feriti, oltre 50 mila le case distrutte.

L’epicentro del sisma, il più forte da un secolo a questa parte, è stato individuato vicino agli stati di Chiapas e Oaxaca, ma è stato avvertito fino alla capitale, Città del Messico.

I leader della chiesa nelle regioni colpite hanno riferito che quattro membri sono morti e molti altri sono stati ricoverati in ospedale.

La Regione del Chiapas
«È scioccante vedere tanta distruzione dappertutto», ha affermato il past. Ignacio Navarro, presidente della chiesa cristiana avventista in Chiapas, «Sono molti gli abitanti rimasti senza casa».

Tra le persone in difficoltà ci sono anche 7.000 avventisti in Chiapas, le cui case sono state distrutte o gravemente danneggiate dal terremoto. La mattina dell’8 settembre, Navarro ha iniziato a visitare le comunità colpite di Paredón, Tonala, Pijijiapan, ecc. Dopo quattro giorni di viaggio e oltre 2.500 chilometri percorsi, è ancora scosso da tutto quello che ha visto.

Ha consolato la famiglia di Alejandro Arreola Pineda, uno dei due membri di chiesa in Chiapas, deceduto a causa delle ferite riportate. Ha officiato il servizio funebre il 9 settembre, evidenziando la fedeltà di Arreola. «Svegliato dal terremoto, si era inginocchiato per pregare, ma è stato colpito dal crollo di un muro e non ha mai ripreso coscienza, dopo il ricovero in ospedale”, ha affermato Navarro, «Sappiamo che aveva fede nel Signore».
Quella stessa fede e fiducia nel Signore che mi ha commosso, ha detto Navarro, «quando ho visto la forza incredibile dei nostri fratelli e sorelle rimasti saldi al fianco del Signore, anche dopo aver perso le loro case».

La chiesa distribuisce acqua, cibo, coperte e vestiti alle famiglie, avventiste e non, colpite dal disastro. Intanto gli amministratori della denominazione in Chiapas valutano attentamente le necessità immediate delle persone e offrono incoraggiamento spirituale. Saranno anche fornite lamiere di metallo per riparare i tetti delle case dei membri e cemento per ricostruire i muri.

Sono 50 le chiese distrutte. «I nostri membri continueranno a riunirsi per il culto nei loro piccoli gruppi fino alla ricostruzione delle chiese», ha informato Navarro. La scuola avventista di Tuxtla Gutiérrez ha subito danni estesi alla struttura e rimarrà chiusa finché non sarà di nuovo agibile per i 450 studenti, dalle elementari alle superiori, che la frequentano.

«Le nostre chiese in Chiapas sono impegnate nella raccolta di prodotti alimentari e di abbigliamento da distribuire alle famiglie nelle aree più colpite del nostro territorio e del vicino stato di Oaxaca», ha concluso Navarro.

L’Unione interoceanica messicana
«Siamo tristi per la morte di due avventisti a Oaxaca», ha affermato il past. Moisés Reyna, presidente dell’Unione interoceanica messicana della chiesa. Molti membri sono ancora ricoverati in ospedale. 127 famiglie avventiste hanno le case distrutte o parzialmente danneggiate. «Molti dormono all’aperto, altri nei rifugi», ha aggiunto.

La chiesa ha attivato fondi di l’emergenza per aprire quattro centri nelle comunità colpite, che servano pasti caldi ogni giorno ai membri di chiesa e alla popolazione. Le comunità avventiste raccolgono alimenti da distribuire a chi ha bisogno.
«Stiamo facendo tutto quello che possiamo per aiutare le persone», ha spiegato Reyna, «Vogliamo che non si sentano sole. Dio è con loro e anche la famiglia della chiesa del Messico e di tutto il mondo si preoccupa per ciascuno di loro».

Una chiesa del territorio è stata distrutta e altre 14 hanno subito danni. Inoltre, i dirigenti devono decidere dove trasferire i 260 studenti della scuola avventista «Benito Juarez» di Asuncion Ixtaltepec, nello stato di Oaxaca, praticamente rasa al suolo dal terremoto. Ciò che rimane dell’edificio dovrà essere demolito e poi si procederà alla ricostrzione.

Gli interventi di Adra Messico
Adra in Messico lavora con gli enti locali, statali e federali per la distribuzione di beni a 4.250 famiglie nelle zone più colpite del Chiapas e di Oaxaca.
«I nostri volontari hanno imballato pacchi di alimenti che saranno distribuiti nei Comuni di Tonala, Arriaga e Cintalapa, in Chiapas; e Juchitan e Ixtaltepec, in Oaxaca”, ha affermato César Hernández, di Adra Messico.

«Famiglie come i Perez Mendoza di Ixtaltepec, in Oaxaca, che per due lunghi minuti hanno visto la loro casa andare in pezzi sotto le scosse del terremoto, riceveranno pacchi contenenti prodotti alimentari per una settimana, tra cui farina di mais, riso, pasta, avena, salsa di pomodoro, fagioli, lenticchie, olio e sale», ha aggiunto Hérnandez.

David Poloche, direttore di Adra Inter-America, pianifica gli interventi per le persone colpite. «Consapevole della nostra responsabilità come chiesa, Adra ha intrapreso azioni immediate per aiutare ciascuna delle comunità colpite e  in difficoltà».

«Grazie ai fondi di Adra International, Adra Inter-America e Adra Mexico, oltre 20.000 persone in Chiapas e Oaxaca riceveranno aiuti nelle prossime settimane», ha aggiunto Poloche.

Guatemala occidentale
Nel Guatemala occidentale, le comunità di San Marcos, città vicina alla costa meridionale del Messico, hanno anche subito danni dal sisma. Sono oltre 20.000 le persone interessate, secondo i funzionari governativi.

Otto chiese avventiste sono state danneggiate e più di 114 case di membri di  chiesa sono state distrutte o lesionate.
«Gli uffici della Federazione e della Missione si sono subito adoperati per dare aiuto e hanno fornito pacchi di alimenti alle famiglie colpite, mentre i Ministeri a favore dei bambini hanno raccolto coperte per i giovani e le loro famiglie», ha affermato il past. Gustavo Menéndez, direttore delle Comunicazioni della chiesa in Guatemala.

Entro la fine della settimana, Adra Guatemala distribuirà pacchi di cibo, abbigliamento e coperte alle comunità terremotate di San Marcos.

(Foto: Adra Messico)

 

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