Intervista alla nuova presidente della FDEI

Intervista alla nuova presidente della FDEI


Proseguono gli appuntamenti con la Federazione delle donne evangeliche in Italia (FDEI). Questa settimana  ascoltiamo un’intervista di Claudio Coppini e Roberto Vacca alla pastora metodista Mirella Manocchio, nuova presidente della FDEI, che ci parla del senso della Federazione e dei temi principali emersi nel corso del recente congresso. Esistono obiettivi e sfide importanti, non facili da affrontare, ma la nuova presidente FDEI può contare sulla collaborazione dei ministeri femminili presenti nelle varie Chiese evangeliche in Italia e in Ticino.

Il prezzo del cambiamento

Il prezzo del cambiamento

Intervista a Ella Simmons.

Vivere in tempi di grande trasformazione sociale è un privilegio ma anche una sfida. In questa intervista, la dottoressa Ella Simmons rivela come sono state la sua infanzia e giovinezza durante il periodo del movimento americano per i diritti civili. In quel tumulto, scoprì anche la chiesa che finì per amare e servire con dignità e coraggio. Ella è stata la prima donna vicepresidente della Chiesa avventista mondiale. È andata in pensione quest’anno dopo 17 anni di mandato (ndt). Questa un’intervista è stata realizzata da Adrian Bocaneanu e trasmessa sul canale HopeTV della Romania. La trascrizione dell’intervista è stata modificata per brevità e chiarezza.

Adrian Bocaneanu: Qual è il tuo ricordo d’infanzia più bello? 
Ella Simmons: Ho molti bei ricordi della mia infanzia, ma i più forti sono legati alla mia bisnonna. Era il punto fermo della mia vita e mi ha insegnato tutto quello che so sulla vita, su Dio, sulle relazioni, sulla cucina e su molte altre cose ancora. In qualche modo, ho sviluppato l’amore per i libri. Leggendo, viaggio indirettamente attraverso le storie raccontate. Non possedevo molti libri; ne avevamo un po’, ma non eravamo ricchi.
Sebbene non fossimo ricchi in senso materiale, erano più ricche le relazioni personali e la comprensione della vita. Quindi sono sempre stata incoraggiata a frequentare la biblioteca pubblica, che era gratuita. Andavo e tornavo con enormi pile di libri e viaggiavo in tutti i tipi di posti esotici attraverso le mie letture. E forse questo si è esteso poi all’amore per la scuola. Combinare l’amore per l’apprendimento e la lettura, suppongo che questo abbia plasmato la mia prospettiva sulla scuola.

A. B.: Quelli della tua famiglia erano cristiani praticanti? 
E. S.: La mia famiglia non era avventista del settimo giorno, come lo sono io adesso, ma tutti i membri della mia famiglia erano cristiani. Sebbene non avessimo un culto familiare regolare, c’era un’atmosfera di adorazione in casa, unita alla preghiera e alle conversazioni sul nostro cammino con Dio.

A. B.: Si trattava di uno stile di vita piuttosto che di una vita incentrata sulla chiesa. 
E. S.: Sì. Vi erano alcune attività incentrate sulla chiesa: memorizzavamo la Scrittura, cantavamo canti e inni cristiani e assistevamo ai servizi di predicazione, ma il modo in cui si svolgevano quotidianamente era per me la cosa più interessante. Ancora oggi non so se la mia bisnonna mi avesse educato in questo modo intenzionalmente, o se fosse il suo modo naturale di vivere e condividere la vita.

A. B.: Hai detto che la tua famiglia non era avventista del settimo giorno, come lo sei adesso. Come sei venuta a conoscenza di questa fede e cosa ti ha attratto? 
E. S.: Direi che sia stata la fede della mia famiglia a gettare le basi. Ci è stato insegnato a pensare sempre da noi stessi e a studiare per capire da soli. L’ho preso alla lettera e ho studiato la Bibbia da sola. È così che ho scoperto alcuni insegnamenti che non avevo sentito nella chiesa che frequentavo, e ciò, dal mio punto di vista di ragazza di 14 anni, era una chiara violazione della Parola di Dio.

A. B.: Potresti farci degli esempi? 
E. S.: Uno di essi aveva a che fare con il sabato.

A. B.: Quindi, a 14 anni, hai scoperto da sola la verità sul sabato, leggendo la Bibbia, non sapendo quale chiesa lo osservasse. 
E. S.: L’ho letto nei dieci comandamenti. Tutti i cristiani credono nei dieci comandamenti e io mi sono chiesta: “Come mai crediamo in nove dei dieci comandamenti, ma non in questo?”. Avevo molte domande senza risposta. Dopo alcuni anni, ho scoperto la chiesa avventista del settimo giorno, dove ho trovato le risposte a tutte le mie domande, così ho deciso di essere battezzata nella chiesa avventista.

A. B.: Quando ti sei resa conto del fatto che c’erano alcuni problemi nel rapporto tra bianchi e neri? 
E. S.: Questa è una bella domanda. La maggior parte dei quartieri in cui ho trascorso la mia infanzia (ci siamo trasferiti poche volte) erano abitati da persone di diversa estrazione. A Louisville, nel Kentucky, dove sono cresciuta, la gamma di diversità non era ampia, eppure c’era. Non ero a conoscenza delle differenze nella mia giovane età, ma c’erano alcuni indicatori.

Ad esempio, nel nostro quartiere in età prescolare tutti i bambini, bianchi e neri, sono cresciuti insieme, hanno giocato insieme e pensavano poco alle diversità, ma in età scolare vi è stata una divisione. I bambini neri venivano indirizzati in una scuola e i bambini bianchi in un’altra scuola. Ho iniziato a capire allora che c’era una certa differenza. Ma non ho necessariamente visto questo come una differenza di valore. A volte sentivo la conversazione, ma ancora una volta non ci pensavo molto a causa del modo in cui siamo cresciuti. Forse conosci il caso “Brown contro Board of Education” al quale sono stati indirizzati i nostri distretti scolastici per disaggregare o integrare.

A. B.: Qual era la situazione a Louisville? In molti luoghi ci sono state lotte terribili. 
E. S.: Hai ragione. Non abbiamo avuto scontri terribili, ma non sapevamo cosa sarebbe successo. Ricordo che avevo finito la seconda elementare quando è successo, e i miei genitori erano preoccupati. Non mi hanno parlato dei pericoli, ma ho imparato molti anni dopo che quello che hanno fatto è stato prepararmi a uscire da sola, come stavo facendo. E ricordo il primo giorno. Sono andata nella scuola frequentata da altri miei amici, avevo il mio piccolo pranzo al sacco e la cartella con i libri; indossavo l’uniforme scolastica e andavo allegramente senza rendermi conto che i miei genitori mi seguivano. Si nascondevano dietro un albero o una macchina, in modo che io non sapessi di essere osservata, e questa situazione andò avanti per un po’, finché non si resero conto che sarei stata al sicuro.

Abbiamo avuto una transizione graduale. In seguito, abbiamo avuto dei problemi, ma niente di simile a quello che forse avete visto in alcuni film, da altre parti degli Stati Uniti.

A. B.: Nel tempo, il movimento per i diritti civili ha guadagnato slancio. Hai qualche ricordo di quel periodo? 
E. S.: Certamente. A un certo punto, ho capito meglio la situazione e posso dirti che nel quartiere sicuro in cui vivevo, di tanto in tanto, c’erano persone che facevano commenti poco gentili. E così ho cominciato a capire pian piano. Venendo al movimento per i diritti civili, ero pienamente consapevole delle sfide che dovevamo affrontare nel nostro Paese.

A. B.: Nella città di Louisville, la segregazione razziale era praticata come nel sud? O i neri erano meglio integrati anche prima dei grandi cambiamenti degli anni ’60? 
E. S.: C’erano chiari segni di segregazione, ma non in ogni luogo e in ogni momento. Louisville era un posto interessante. Era diverso. La linea Mason-Dixon era una sorta di confine tra nord e sud. Ricordo quando gli afroamericani di Louisville boicottarono i grandi magazzini, rifiutandosi di acquistare qualsiasi cosa per Pasqua.

Nella cultura in cui sono cresciuta, il periodo pasquale era quello in cui tutti avevano un vestito nuovo e spesso un cappello nuovo. Neri e bianchi avevano tutti la stessa tradizione. Acquistavamo i vestiti negli stessi grandi magazzini. Ma quello che non sapevo fino ad allora era che c’era una regola che non permetteva ai clienti neri di provare i vestiti. Era molto strano, ma tali differenze esistevano, quindi ci siamo detti tutti: “Non compriamo niente di nuovo per Pasqua. Fino a quando non verrà modificata questa regola, non faremo acquisti in questi negozi”. Ricordo che ho preso parte a questo boicottaggio e su questo i miei genitori sono stati molto chiari, non dovevamo entrare in quei negozi, per non permettere più che si praticassero simili oltraggi contro di noi. C’erano anche alcune tavole calde che dovevano essere boicottate. C’erano sit-in, marce e manifestazioni.

A. B.: Erano manifestazioni pacifiche o erano segnate da scontri fisici? 
E. S.: Per la maggior parte, le manifestazioni sono state pacifiche.

A. B.: Hai preso parte a qualcuna? 
E. S.: Ho partecipato ad alcuni raduni in alcuni posti. I miei genitori avevano paura a lasciarmi andare alle manifestazioni, perché avrebbero dovuto essere non violente, ma i miei genitori non erano sicuri che sarei rimasta tranquilla se qualcuno mi avesse provocato. Sentivano che avrei reagito e avevano paura che sarei stata uccisa.

A. B.: Suppongo che tu abbia molta esperienza con i combattimenti, dato che sei cresciuta con cinque fratelli. 
E. S.: Sì, e forse a volte sono stata un po’ troppo frettolosa.

A. B.: Con il passare del tempo le cose si sono sistemate. In che modo la situazione in quel momento ha influenzato la tua prospettiva sulla vita, le relazioni e la giustizia sociale? 
E. S.: Ho un profondo senso di giustizia ed equità, i due termini per me sono sinonimi in questo contesto. Hai detto che con il passare del tempo le cose si sono calmate, si sono sistemate. È vero, ma come sapete la situazione non è completamente cambiata. Certe ingiustizie persistono in un modo o nell’altro. Grazie al fatto che sono cresciuta in quel periodo, in quella città e in una famiglia che mi ha sostenuto costantemente, ho acquisito un sano senso di autostima. So che i miei genitori mi hanno dato una buona educazione. Non si tratta di vanità, ma di un senso di valore nel contesto dell’essere creazione di Dio, e tutte le persone sono create uguali.

Ma riconosco che è sempre una lotta, e Frederick Douglass lo disse in modo eloquente in uno dei suoi discorsi che preferisco, pronunciato nel XIX secolo nei Caraibi. Disse che il problema riguarda il potere, coloro che vogliono impossessarsene e mantenerlo, non le differenze razziali, nazionali, etniche o sociali. Disse anche che le persone non rinunceranno mai al potere senza combattere, e non dovremmo nemmeno pensare che ciò possa accadere senza combattere. La lotta potrebbe essere morale, fisica o entrambe le cose, ma deve certamente essere combattuta, e io mi ci ritrovo perfettamente in questo.

Ripensando a quando ero a scuola, so esattamente quali insegnanti si sono rivolti a me come individuo e quali hanno avuto difficoltà a causa del mio colore e della mia etnia. Sono stata capace di addentrarmi nel sistema e questo mi ha aiutato. Sono successe diverse cose da quando sono arrivata a occupare la posizione che ho ora all’interno della chiesa, e alcuni dei miei amici e colleghi hanno affrontato più sfide di me. Ho detto loro: “Scelgo come consentire alla rabbia di dirigere le mie energie”. Ci arrabbiamo quando vediamo ingiustizie dirette verso di noi e gli altri, ma la rabbia non è il rimedio, quindi, ho imparato che devo essere saggia nel modo in cui rispondo. Ci sono momenti in cui rispondo impulsivamente e talvolta credo che sia meglio, ma in molte occasioni devo trattenermi e muovermi con dignità, come cristiana, ma allo stesso tempo mi preparo a combattere l’ingiustizia nel posto giusto e al momento giusto.

A. B.: In quei tempi di tumulto interiore, hai scelto di affermare la tua libertà interiore e il senso del tuo valore personale, sapendo che sei stata creata da Dio. 
E. S.: Assolutamente. Forse sono un’idealista e penso che dobbiamo mantenere gli ideali per riuscire a fare ciò che Dio vuole che facciamo. Per poter andare avanti è necessario conservare la nostra speranza. Uno dei miei migliori amici dice che dobbiamo andare avanti e verso l’alto, e la speranza ci aiuta a farlo. Credo che dobbiamo sempre cercare la giustizia.

Alcune persone hanno un atteggiamento critico nei confronti della giustizia sociale, di cui ora si parla forse troppo sporadicamente. Credo che in realtà si tratti di giustizia divina per tutte le persone. Dio ci ha creato e ci ha dato delle leggi. Se noi, il popolo, le rispettassimo, vivremmo in completa armonia gli uni con gli altri. Dio è amore, la sua legge è basata sull’amore e dobbiamo amarci reciprocamente. Credo che ci sia una tensione continua all’interno di ogni collettività e di ogni persona per creare una società basata sulla giustizia, ma per costruirla, dobbiamo tornare al progetto originale di Dio per la sua creazione. Non è qualcosa che può essere imposto dall’esterno, si tratta di sottomissione interiore alla volontà divina. Quindi, avviene una trasformazione graduale, dall’interno verso l’esterno.

Tornando alle mie esperienze del movimento per i diritti civili, dovevano esserci leggi imposte dall’esterno per vietare certi comportamenti, perché altrimenti le cose non sarebbero cambiate. Quando questo accadde, vi furono persone, persone oneste, che proprio non sapevano o a cui veniva insegnato in modo errato, che vedevano forse per la prima volta con i propri occhi quali fossero i tragici effetti dell’ingiustizia, e iniziarono a cambiare il loro comportamento. Poi vi erano quelli che probabilmente erano solo il male e avevano permesso al male di germogliare nel loro cuore e non sarebbero mai cambiati. Quindi, era necessario porre loro dei limiti con l’aiuto della legge.

A. B.: Hai detto che dobbiamo andare avanti e verso l’alto e, in molti modi, sei arrivata più lontano e più in alto di quanto ci si aspettasse nel tuo ambiente. Hai dedicato la tua vita all’apprendimento e hai anche conseguito un dottorato in scienze dell’educazione. Qual è stata la tua esperienza quando hai avuto più successo della maggior parte delle persone intorno a te? Ti hanno sostenuto, mantenendo il tuo senso di appartenenza? O questo ha sollevato barriere tra te e quelli del tuo gruppo? 
E. S.: Ho incontrato entrambi gli atteggiamenti nella mia cerchia sociale più ampia. Dalla mia famiglia e dai miei parenti ho sempre avuto sostegno, ma c’erano altre persone che dicevano cose scortesi come: “Non sai chi sei. Cosa stai cercando di fare? Perché stai cercando di separarti da noi?”. Questo fatto mi ha portato a essere più sensibile verso gli altri, perché non stavo chiaramente cercando di mettere una barriera tra quello che ero e quello che facevo.

Sono molto orgogliosa della mia eredità, perché è ricca in modi più significativi. Ma c’erano alcune persone che non capivano cosa stessi facendo, quindi, ho dovuto dimostrare loro che non ero cambiata, che tenevo ancora a loro e che apprezzavo ancora ciò che avevano ottenuto nella vita.

Alcuni dei miei amici non sono stati in grado di raggiungere i livelli di istruzione e sviluppo professionale loro offerti, perché sentivano di dover assomigliare alle persone del loro gruppo tralasciando ciò che era stato loro offerto. Però posso essere me stessa dal punto di vista spirituale, professionale ed educativo e nello stesso tempo essere come altri che erano andati forse nella direzione opposta. Siamo tutti diversi gli uni dagli altri e, per vari motivi, seguiamo strade diverse.

Ho ereditato dalla mia famiglia una delle cose più importanti: la volontà di non permettere agli altri di determinare la mia via o di definirmi, ma di lasciarmi guidare solo da Dio. Chi ti circonda a volte può intervenire in modi diversi. Alcune persone hanno cercato di ostacolarmi, ma il Signore ha organizzato le cose in modo che potessi continuare quello che stavo facendo. Per me, la progressione, in avanti e verso l’alto, è stata naturale perché fin da piccola mi è stato insegnato che questo è il corso naturale delle cose nella vita e che è quello che dovevo impegnarmi a fare. Questi insegnamenti erano profondamente radicati nella mia mente, quindi non ho nemmeno pensato ad altre opzioni. Forse ho perso qualche amico qua e là, ma è stata una loro decisione, non la mia, e spesso ho dovuto dire ai miei amici: “Non posso partecipare a determinate attività perché devo studiare o prendermi cura della mia famiglia”. Ho cercato di prendere decisioni sagge, ascoltando la volontà di Dio e lasciandomi guidare da lui, anche se questo significava lasciare la mia zona di comfort.

A. B.: Alcuni sono stati felici per la tua elezione alla guida internazionale della Chiesa avventista. Per qualcuno aveva anche un valore simbolico, perché sei una donna e perché sei nera. Ma altri non sono così soddisfatti. Dopo tutta l’eccitazione e il tumulto iniziali, devi esercitare la tua funzione e compiere determinate cose. Hai trovato un ambiente favorevole per fare quello a cui sei stata chiamata? 
E. S.: Sì. Assolutamente.

A. B.: Te lo chiedo perché nessun’altra donna ha mai ricoperto questa posizione. 
E. S.: Questo è vero. Posso fare riferimento alla mia infanzia, quando dovevo esplorare e affrontare nuove situazioni. Per esempio, quando avevo sette o otto anni, qualche volta ci trasferivamo in un nuovo quartiere e andavo in una nuova scuola, quindi ci sono abituata. Sono abituata a essere l’unica femmina tra maschi, perché Dio mi ha dato solo fratelli per prepararmi a questa posizione.

A. B.: Interessante! Quanti vicepresidenti sono attualmente presenti alla Conferenza generale? 
E. S.: Penso sei. Quindi la situazione ricorda perfettamente quella della mia infanzia, quando sono cresciuta tra cinque fratelli. Penso di essere anche più anziana di loro per età e per servizio, quindi, la situazione ora è simile a quella della mia infanzia. Sono tornata al punto di partenza della mia vita.

A. B.: Scorgi qualche valore nell’aspetto simbolico dell’essere afroamericana e donna che apre la strada ad altre donne, incoraggiandole, aiutandole e dando loro la speranza che non ci siano limiti quando ci fidiamo di Dio e gli ubbidiamo? 
E. S.: Certo! Sento questo senso di responsabilità. Ci è stato insegnato che abbiamo una responsabilità verso tutte le altre persone, verso coloro che sono d’accordo con noi e anche verso coloro che non lo sono, qualunque sia il problema. Tengo a mente queste cose quando svolgo i miei compiti.

A. B.: Nel frattempo, sei stata rieletta due volte vicepresidente. 
E. S.: Sì, è una cosa che mi stupisce. La mia convinzione è che le cose migliori debbano ancora venire.

A. B.: Dottoressa Simmons, grazie mille.

Nota: Puoi guardare la versione completa qui: http://www.sperantatv.ro/web/punctul-de-plecare-ella-simmons-09-07-2016/ 

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

Ella Simmons è stata anche in Italia, tra gli ospiti speciali dell’Assemblea spirituale tenuta a Milano nell’aprile del 2017. In quella occasione ha tenuto il sermone del sabato mattina. Clicca qui per leggere la notizia.

“La casta dei casti”, intervista a Marco Marzano

“La casta dei casti”, intervista a Marco Marzano


Nel corso della diretta RVS del 30 settembre 2022 Roberto Vacca intervista il professor Marco Marzano, dell'Università di Bergamo, autore del saggio "La casta dei casti. I preti, il sesso e l'amore" (ed Bompiani 2021), storie di vita di preti tra segreti, sensi di colpa e silenzi: dalla formazione in seminario alla vita pastorale. Uno studio sugli effetti meno raccontati del processo di "sacralizzazione" della figura del sacerdote.

Perché la Chiesa cattolica difende il voto di castità per i preti e come affronta la delicata questione dell’affettività per gli appartenenti al clero? In che modo gli anni di seminario trasformano in modo decisivo il rapporto con la sessualità dei futuri preti? A queste domande cerca di rispondere Marco Marzano in questo saggio documentato attraverso l’analisi rigorosa della letteratura scientifica e soprattutto attraverso decine di interviste in profondità a preti e persone che hanno lasciato il sacerdozio. ll quadro che emerge è uno spaccato della vita intima di un ceto sacerdotale formato sin dai seminari dall’istituzione a cui appartiene a nascondere una parte dell’esistenza invece che a viverla pienamente e serenamente. 

Intervista al nuovo presidente dell’Unione italiana delle chiese avventiste

Intervista al nuovo presidente dell’Unione italiana delle chiese avventiste


Nei giorni scorsi è stato eletto il nuovo presidente dell’Unione italiana delle chiese cristiane avventiste del settimo giorno, il pastore Andrei Cretu. Claudio Coppini e Roberto Vacca lo hanno intervistato nel corso della diretta RVS del 15 settembre.

Tra i temi affrontati: il ruolo del presidente e il gioco di squadra; la Chiesa non deve chiudersi in se stessa, ma offrire una testimonianza di fede radicata nel servizio; un laboratorio di fraternità che può diventare modello per la società italiana sempre più multiculturale.

Edizioni Adv. La nostra Africa

Edizioni Adv. La nostra Africa

Notizie AvventisteLa nostra Africa è il nuovo libro delle Edizioni Adv, che arricchisce la collana di tascabili “Segni dei tempi”. Gli autori, Riccardo Orsucci, pastore emerito, e la sua famiglia, raccontano la loro esperienza di missionari in diversi Paesi africani. 
Hanno “vissuto l'Africa con tutte le sue contraddizioni, scoprendo che in cambio di qualche incertezza in termini di salute e sicurezza, si possono trovare relazioni umani, umane e valori spirituali che difficilmente si incontrano nelle comode e fredde città europee” si legge in quarta di copertina del libro. 
Per saperne di più abbiamo rivolto alcune domande a Riccardo Orsucci e sua moglie Gioia.

Notizie Avventiste: Perché questo libro e questo titolo? 
Riccardo Orsucci: Da quando siamo rientrati definitivamente in Italia avevamo il desiderio di raccontare quanto vissuto nel continente africano. Le avventure, le emozioni, le sfide, i pericoli, i successi. Solo dopo la pensione ho trovato il tempo e la tranquillità per realizzare questo sogno. Come leggerete nell'introduzione c'è voluto anche l'incontro a Chiesina Uzzanese di un gruppo di scrittori e poetesse per favorire l'inizio di questo cammino a ritroso nella nostra vita. Il titolo del tascabile si spiega facilmente perché è frutto della collaborazione di tutta la famiglia. Gioia, Samuele e Paola hanno raccontato pezzi di questa Africa dal loro punto di vista offrendo al lettore spaccati e sensibilità diversi.

N. A.: Nel libro ci sono riferimenti ad eventi politici, sociali e militari importanti per la storia europea e africana. Per quale ragione hai inserito queste realtà? 
R. O.: Pur avendo vissuto solo 2 anni a Lisbona e ben 17 in Africa, la nostra missione ha coperto un periodo di tempo più lungo, dal 1973 al 2001. Questi anni sono stati determinanti per la storia dei Paesi dove abbiamo vissuto: fine della dittatura fascista in Portogallo (1974) a cui ha fatto seguito l'indipendenza di Capo Verde e Guinea-Bissau; genocidio in Ruanda (1994); atrocità in Sierra Leone e Liberia raccontate magistralmente nel film “Blood Diamond” con Leonardo Di Caprio; golpe e guerriglia in Guinea-Bissau (1998-2000). Le nostre esperienze non potevano estraniarsi dalla realtà spesso drammatica ma sicuramente autentica.

N. A.: Avete vissuto in tre Paesi molto diversi tra di loro anche dal punto di vista religioso, cosa ci puoi dire al riguardo? 
R. O.: I capoverdiani sono cristiani da quando le isole sono state scoperte e in seguito popolate da schiavi introdotti dal vicino continente. È interessante sapere che il primo navigatore che vi mise piede fu Alvise da Mosto, esploratore veneziano al servizio del principe del Portogallo, Enrico il navigatore. Il Niger è un Paese islamico circondato da nazioni con la stessa cultura. I guineensi si distinguono per la cultura animista dove gli stregoni e gli spiriti familiari hanno permeato le tradizioni del Paese. Il confronto con queste tre diverse realtà ha sviluppato in noi lo spirito di adattamento e una certa sensibilità ad ogni situazione e diversità. È fondamentale, in ogni circostanza, accogliere quanto di buono c'è in ogni persona e cultura, e allo stesso tempo modulare e orientare il nostro approccio cristiano ed evangelistico secondo l'ambiente che ci ospita e le persone che ci ascoltano. Ricordo che mentre eravamo a Niamey (capitale del Niger, ndr) i dirigenti della Chiesa avventista mondiale avevano addirittura dato l'ok alla stampa del libro La via migliore, di Ellen G. White, con le modifiche al testo originale che avevo consigliato per i Paesi musulmani! Dopo la nostra incarcerazione e fuga rocambolesca da Niamey, di cui leggerete nel libro, dovuta alla predicazione di un collega straniero, avevo preso una decisione drastica: chiunque volesse venire dall'estero per tenere conferenze o campagne di evangelizzazione, fosse stato anche il presidente della Chiesa mondiale, avrebbe dovuto inviarci previamente il testo dei suoi interventi.

N. A.: Quindi nel libro leggeremo delle vostre disavventure? 
R. O.: Leggerete di tutto. Le storie familiari si intrecciano ai giorni di prigionia a Niamey e alla fuga rocambolesca con Allain Long. La guerra in Guinea-Bissau e i tanti viaggi per terra, per mare e con aerei al limite del credibile. Leggerete di rapporti fraterni intensi e sinceri con le varie realtà religiose.

N. A.: In cosa consisteva il vostro servizio in quei territori? 
R. O.: Il nostro servizio era orientato in tre direzioni: stabilire e/o sviluppare la Missione avventista, realizzare progetti di sviluppo tramite Adra (Agenzia Avventista per lo Sviluppo e il Soccorso) e aprire scuole con il sostegno di Reach Italia onlus. Il fatto di dirigere e programmare le tre istituzioni mi ha permesso di realizzare, in accordo con i vari comitati direttivi, una perfetta sincronia tra queste per uno sviluppo rapido e integrato.

N. A.: Nel libro raccontate anche le vostre esperienze spirituali? 
R. O.: Sicuramente gli anni trascorsi in Africa sono stati fondamentali nella nostra riflessione spirituale. Abbiamo sentito la presenza di Dio e la sua protezione; abbiamo visto i suoi interventi e il suo amore per chiunque; abbiamo imparato a leggere la Bibbia partendo dagli insegnamenti di Cristo; abbiamo provato il cambiamento dentro di noi e lo abbiamo testimoniato negli altri. Anche di questo leggerete nel libro.

N. A.: A chi è destinato il tascabile “La nostra Africa”? 
R. O.: Il libro non affronta tematiche dottrinali. È un racconto di storie vere, avventurose, emozionanti, a volte incredibili. Sicuramente sarà apprezzato da giovani e da adulti, da credenti e anche da non credenti. Anzi quest'ultimi potrebbero essere spinti a porsi delle domande. Gioia ed io abbiamo regalato delle copie a parenti, a vicini, ad amici, al collega evangelico, al medico di famiglia e continueremo a offrirlo ad altri, qualunque sia la loro fede. Potrebbe diventare un mezzo di testimonianza diverso e forse più apprezzato di altri. Spero che i colleghi e i vari responsabili di comunità ne facciano la dovuta pubblicità per il bene e la crescita di tutti.

N. A.: Gioia, anche tu hai scritto alcuni capitoli del libro. Cosa vuoi dire ai lettori? 
G. O.: Sia quando ho scritto alcune pagine e sia quando ho riletto, d'un sol fiato, l'intero libro dopo la sua stampa, mi sono divertita e mi sono emozionata molto. Spero che sarà lo stesso per il lettore. Fate un buon viaggio con noi. 

 

 

Un ministero dietro l’obiettivo

Un ministero dietro l’obiettivo

Nella Giornata mondiale della fotografia, il fotografo di una casa editrice avventista sudamericana mostra il dietro le quinte delle produzioni e parla della differenza nel lavorare con uno scopo.

HopeMedia Italia – Il 19 agosto 1839, l’Accademia francese delle scienze annunciò l’invenzione dell’antenato delle macchine fotografiche: il dagherrotipo. La grande scatola di legno, con una fessura per la lastra di rame sul retro e frontalmente un obiettivo fisso, in vetro e ottone, è stata il primo strumento che ha permesso di fissare immagini in tempo reale, senza bisogno di un artista. Da allora, la possibilità di rendere eterni i momenti quotidiani è diventata parte della vita umana. Alcuni ne hanno fatto addirittura la loro professione.

In occasione della Giornata mondiale della fotografia (19 agosto), l’Agenzia stampa avventista sudamericana (Asn) ha rivolto alcune domande a William de Moraes, fotografo della casa editrice brasiliana (Cpb), per saperne di più sul suo lavoro e sulla sua carriera. Figlio di ex dipendenti dell’editore avventista, William inizia a lavorare nella tipografia e, due anni dopo, entra nella fotografia. Oggi guida il gruppo che si occupa di centinaia di produzioni della Cpb, con foto su vari soggetti, dalle persone ai prodotti alimentari.

Asn: Perché hai scelto di fare il fotografo? Come è iniziata la tua carriera? 
William de Moraes: Mi è sempre piaciuto scattare foto. In casa editrice ho avuto modo di entrare in contatto con la fotografia editoriale, che è un po’ diversa da quella convenzionale. Nel 1985 si era liberato un posto nel dipartimento di fotografia e ho fatto domanda. Dopo alcuni colloqui, sono stato assunto e trasferito dal reparto stampa a quello della fotografia. Lì è cominciato il mio apprendistato. All’inizio ero un assistente di studio e poi sono diventato ufficialmente un fotografo.

Asn: Nella casa editrice brasiliana scatti foto a persone e persino a prodotti alimentari. Da dove vengono le idee per ogni fotografia? 
W. de M.: L’editore e il designer discutono di quali immagini ha bisogno il prodotto. Successivamente, il designer incontra me e altri professionisti per esaminare quello che chiamiamo un “briefing”, che sarebbe l’idea da eseguire. Lì, discutiamo come e quando scatteremo le foto, dove e chi le scatterà. In questo modo, in base alle nostre conoscenze e possibilità, mettiamo in pratica le idee.

Asn: Sei fotografo dai tempi delle fotocamere analogiche. Com’era il lavoro allora? E come è stato aggiornato l’editoria fino ad oggi? 
W. de M.: Posso dire che a quei tempi le foto erano molto diverse, perché scattavamo le immagini “al buio” e conoscevamo il risultato solo dopo aver sviluppato i negativi. Pertanto, il livello di successo doveva essere alto, e l’esperienza ci dava sicurezza. C’era tensione, ma anche piacere. Con il tempo e le nuove tecnologie, il cambiamento è stato normale e necessario fino all’acquisizione dell’immagine. Nel processo di produzione non è cambiato nulla, tranne il fatto che le fotografie non hanno più bisogno di essere sviluppate. Tutto è diventato molto più veloce. La Cpb ci fornisce le migliori attrezzature.

Asn: La casa editrice brasiliana è una delle più grandi dell’America Latina, ha 121 anni e ha al suo attivo migliaia di materiali prodotti. Qual è la caratteristica distintiva del lavorare in un posto come questo? 
W. de M.: Alla Cpb si respira un’atmosfera piacevole. Vi è collaborazione e ho stretto amicizie che durano per la vita. Ma al di sopra di tutto questo, il fatto di contribuire alla predicazione del vangelo è gratificante. È fantastico lavorare su qualcosa che farà la differenza nella vita delle persone.

Asn: Un consiglio a chi vuole diventare fotografo?
W. de M.: Non smettere mai di studiare; scegli un’area e dedicati ad essa; fotografa sempre tutto; segui i migliori fotografi della tua zona sui social media; quando possibile, investi in attrezzature di qualità; dedicati più che puoi; questo fa la differenza.

Guarda alcuni dei lavori di William, prima dietro le quinte, poi il risultato finale.

 

 

 

 

[Fonte: Asn]

Giornata contro le Mgf. Intervista alla responsabile del Centro “Desert Flower”

Giornata contro le Mgf. Intervista alla responsabile del Centro “Desert Flower”

HopeMedia Italia – L’Ospedale avventista Waldfriede di Berlino, in collaborazione con la Fondazione “Desert Flower” di Vienna, ha aperto il Centro Desert Flower l'11 settembre 2013, per aiutare e curare le donne che hanno subito mutilazioni genitali femminili (Mgf). La Fondazione aveva visto la luce nel 2002 grazie alla ex top model somala Waris Dirie, lei stessa vittima di Mgf all'età di cinque anni e diventata attivista internazionale per sensibilizzare e aumentare la consapevolezza su questo rituale crudele. Il suo libro Desert Flower, pubblicato nel 1997, è diventato un film nel 2009.

Il Waldfriede è il primo e unico ospedale europeo a occuparsi in modo olistico dei problemi delle donne vittime di Mgf. "Dalla sua apertura, nel 2013, più di 600 donne hanno cercato il nostro aiuto medico" afferma la dott.ssa Cornelia Strunz, primario e coordinatrice sanitaria del Centro, nell'intervista di Dagmar Dorn e Corrado Cozzi, rispettivamente direttrice dei Ministeri Femminili e direttore delle Comunicazioni presso la Regione Intereuropea della Chiesa avventista, in occasione della Giornata internazionale contro le Mgf (6 febbraio). Di seguito pubblichiamo l'intervista integrale.

D. Dorn/C. Cozzi: Quali sono le azioni più importanti da attuare per raggiungere l'obiettivo (tolleranza zero) di questa giornata? A parte l'aiuto professionale che offrite, cosa possiamo fare come individui per porre fine alle Mgf? 
Cornelia Strunz: La misura più importante nella lotta contro le Mgf è l'istruzione e la scolarizzazione diffusa dei bambini a livello locale, nei loro Paesi d'origine. Inoltre, il pubblico dovrebbe essere sensibilizzato al problema; le informazioni sulle Mgf dovrebbero essere raggruppate e ulteriormente sviluppate su base interdisciplinare, e le competenze professionali dovrebbero essere rafforzate. Così, nel 2020, abbiamo fondato l'“Ufficio di coordinamento Mgf_C di Berlino". Si tratta della collaborazione di tre organizzazioni: il centro di pianificazione familiare – Balance, Terre des Femmes e il Centro “Desert Flower” dell'Ospedale Waldfriede. Lo scopo di questo ufficio è collegare i servizi esistenti a Berlino e ampliarli secondo le necessità, formare professionisti capaci di affrontare la questione e rafforzare le attività di sensibilizzazione nelle comunità.

Per un sostegno olistico, l'ufficio di coordinamento offre supporto psicologico e servizi psicosociali di gruppo per le vittime, oltre a consulenza e cure mediche. Quindi si concentra sulla sensibilizzazione dei professionisti e li qualifica su come trattare le donne colpite. Una linea diretta offre anche il primo punto di contatto e di consulenza a persone e professionisti interessati, e consente una mediazione semplice e a bassa soglia. Riceviamo molte richieste di assistenza presso il Desert Flower Center, così dal 2018 offriamo un seminario intensivo sulle Mgf per colleghi, ostetriche e infermieri, due volte l'anno.

D. D./C. C.: Può spiegare brevemente cos’è il Centro Desert Flower? 
C. S.: Il progetto "Centro Desert Flower" Waldfriede (Dfc) è nato per necessità clinica, poiché molte donne in Germania soffrono delle conseguenze sanitarie e psicologiche delle Mgf. Il progetto è stato realizzato in collaborazione con la Fondazione Desert Flower e il patrocinio di Waris Dirie e del suo manager, Walter Lutschinger, nel dicembre 2011, poiché era diventato chiaro che il lavoro puramente preventivo non rispondeva alle esigenze delle persone colpite. Il nostro obiettivo è offrire cure mediche olistiche alle donne che soffrono delle conseguenze delle mutilazioni genitali. Ciò include non solo gli interventi chirurgici e le operazioni ricostruttive, ma anche l'aiuto psicologico e fisioterapico. Abbiamo anche organizzato un gruppo di auto-aiuto che si riunisce una volta al mese presso l'Ospedale Waldfriede.

D. D./C. C.: Cosa la motiva a lavorare in questo ambito così delicato? 
C. S.: In qualità di coordinatrice medico e di primario del “Centro Desert Flower” Waldfriede, sono la prima persona con cui le donne si mettono in contatto per telefono o e-mail. Il solo fatto che questi colloqui preliminari, spesso molto emotivi, e la visita medica si svolgano in un ambiente di fiducia, da donna a donna, rende più facile per le pazienti aprirsi con me. Nella sessione di consulenza, i problemi presentati vengono affrontati individualmente. Non si tratta sempre di un intervento chirurgico. Alcune vogliono parlare con la nostra psicoterapeuta o unirsi al nostro gruppo di auto-aiuto. Altre hanno bisogno di un certificato medico per la procedura di richiedente asilo in corso. È importante dedicare tempo a un'anamnesi e a un esame dettagliato, e rispondere ai bisogni delle pazienti, alleviando così le loro paure e affrontando le loro preoccupazioni.

Come specialista nel nostro dipartimento, ho iniziato a lavorare al "Desert Flower Center" Waldfriede con grande gratitudine. Penso che questo lavoro specialistico sia veramente nobile. I tanti riscontri positivi ricevuti ci incoraggiano nel nostro importantissimo impegno.

D. D./C. C.: Lavora nel Centro Desert Flower sin dalla sua fondazione nel 2013. Quali sono gli sviluppi più importanti? 
C. S.: Dall'apertura, a settembre 2013, più di 600 donne hanno cercato il nostro aiuto medico. La chirurgia è stata necessaria per la metà di loro. Nel frattempo, è stata trovata anche una soluzione stabile per la liquidazione finanziaria di casi problematici. Un'operazione costa dai 2.000 ai 4.000 euro. Per le persone con assicurazione sanitaria obbligatoria, i costi sono coperti. Poiché vogliamo curare anche le donne non assicurate, abbiamo fondato la Förderverein Waldfriede e.V. un’associazione che raccoglie fondi per contribuire o pagare per intero i costi in questi casi.

Da gennaio 2015 abbiamo un gruppo di sostegno una volta al mese. Alle riunioni partecipano sia le donne che sono già state curate da noi, sia quelle che sono ancora in cerca di aiuto. In un ambiente protetto, possono condividere esperienze e imparare che non sono sole con le loro paure e preoccupazioni. A volte le donne colpite parlano del loro destino o le donne che hanno già subito un nuovo intervento raccontano le loro esperienze.

Uno dei problemi principali all'inizio era la percezione e la comunicazione interculturale. Siamo molto felici di avere ora due impiegate che sono consulenti e interpreti, oltre alle consulenti volontarie, che consentono a noi e alle donne di superare gli ostacoli non verbali. Abbiamo due terapiste, Evelyn Brenda (nata in Kenya) e Farhia Mohamed (nata in Somalia) che possono svolgere le loro psicoterapie in tedesco e nelle rispettive lingue materne.

Tutte le donne ci dicono quanto sia prezioso per loro il gruppo di auto-aiuto perché qui possono parlare delle loro preoccupazioni ed esperienze spesso per la prima volta nella loro vita, in un ambiente protetto, tra persone che la pensano allo stesso modo. Negli incontri notiamo sempre che quello svolto con le donne è molto più di un semplice "lavoro".

Quando le donne si incontrano, vi è sempre un'atmosfera molto affettuosa. Ci chiamiamo tutte per nome e soprattutto le donne che sono già state curate sono piene di fiducia in se stesse. In questi momenti, ci rendiamo conto quanto questo compito ci gratifichi e quali sono i risultati. In questo Centro viene letteralmente restituita la vita alle donne.

Nell'aprile 2016 abbiamo ricevuto la medaglia Louise Schroeder. È il più alto riconoscimento dello stato di Berlino. Dal 1998, la medaglia è assegnata a una personalità o istituzione che rende un tributo eccezionale all'eredità politica e personale di Louise Schroeder che ha reso eccezionali servizi alla democrazia, alla pace, alla giustizia sociale e all'uguaglianza di genere.

Nell'ottobre 2020, abbiamo pubblicato il primo manuale in lingua tedesca sulle Mgf (a cura dei dottori Uwe von Fritschen, Cornelia Strunz e Roland Scherer), con lo scopo di condividere le nostre esperienze su questo tema complesso e di fornire assistenza a tutte le professioni nel far fronte ai molteplici problemi delle donne circoncise. Poiché il numero di donne con mutilazioni genitali femminili (Mgf) è in aumento anche in Germania a causa della migrazione e della globalizzazione, molti gruppi professionali devono affrontare questo problema senza aver ricevuto finora alcuna formazione.

Il 19 ottobre 2020 è stato pubblicato il primo numero del nuovo Desert Flower Magazine, progettato dalla Fondazione omonima e Waris Dirie. Nella rivista forniamo una panoramica dettagliata del lavoro, dei progetti e dei successi di Waris Dirie e della sua Fondazione nella lotta mondiale contro il disumano rituale delle mutilazioni genitali femminili.

La rivista Desert Flower Magazine è disponibile in tedesco, inglese e francese. 
Link all’edizione tedesca: https://www.yumpu.com/de/document/read/64608181/desert-flower-magazin 
Link all’edizione inglese: https://www.yumpu.com/en/document/view/65173882/desert-flower-magazine
Link all’edizione francese: https://www.yumpu.com/fr/document/view/65176146/fleur-du-desert-magazine 

Oltre alle attività a Berlino, vogliamo anche agire contro le mutilazioni genitali femminili nei Paesi d'origine con misure di prevenzione e attività educativa. Pertanto, l'ospedale Waldfriede sostiene due scuole femminili a Kajiado, in Kenya.1

L’Ospedale Waldfriede collabora anche con il Gynocare Women's & Fistula Hospital di Eldoret, in Kenya. Qui, tra le altre cose, le donne vengono operate per incontinenza urinaria e fecale causata della circoncisione genitale. Specialista in questa tecnica chirurgica è la dott.ssa Hillary Mabeya.

Nota 
1 Segnaliamo la Newsletter 'Bring Hope', Kenya, edita da Evelyn Brenda, presidentessa di Bring Hope Kenya e.V; e la Storia di Eunice, in inglese. 

[Fonte: EudNews)

A tu per tu: Sandro Ventura

A tu per tu: Sandro Ventura


Conversazione con Sandro Ventura sul tema “Ebraismo in Italia fra passato e futuro”. Un intervista di Roberto Vacca fatta poco prima dell’intervento dello psichiatra, tenutasi venerdì 31 gennaio presso la sala conferenze della Facoltà Avventista di Teologia di Firenze. Un incontro organizzato dal Centro Culturale di Scienze Umane e Religiose (CeCSUR). Qui il video dell’incontro.

Soddisfazione per la Festa del libro 2019

Soddisfazione per la Festa del libro 2019

Maol – A due mesi dall’evento organizzato della casa editrice Adv, è ora di fare un bilancio su come è andata. Il Messaggero Avventista online (Maol) ha rivolto alcune domande a Maurizio Caracciolo, direttore delle Edizioni Adv.

Il Messaggero Avventista online: Come è andata la terza edizione della festa del libro?
Maurizio Caracciolo: Grazie al Signore siamo pienamente soddisfatti e gratificati, sia dal punto di vista delle vendite, ma anche della risposta delle chiese. Molte di quelle che nelle prime due edizioni non avevano approfittato dell’evento hanno invece risposto «presente» in questa circostanza. Una delle cose che ci fa più ben sperare è il fatto di notare che ormai la comunicazione giunge puntuale e l’appuntamento sta diventando un momento classico nella vita della chiesa. Ci teniamo a ribadire, se ce ne fosse bisogno, che le Edizioni Adv hanno ragione di esistere nella misura in cui offrono un servizio alla chiesa e alla sua missione.

I tempi sono sempre più complessi, le sfide aumentano e se è vero che gli italiani in generale non sono mai stati assidui lettori, oggi, per i motivi che è inutile anche ricordare, la situazione è peggiorata. Eppure, anche in occasione della Festa del libro ci sentiamo gratificati perché la pagina scritta evidentemente continua ad avere un senso anche nella percezione dei fratelli e delle sorelle della nostra chiesa. Nostro compito è alimentare questo servizio sempre al meglio e non farlo mai appassire.

Maol: Se dovessi stilare una «top ten», quali sono stati i dieci titoli più scelti?
M. C.: Intanto una cifra complessiva: in occasione della Festa del libro 2019 sono stati ordinati e inviati qualcosa come 5.780 libri, un numero niente affatto banale. Per questo ne approfittiamo per ringraziare di cuore le chiese, anche per la capacità di organizzarsi e cumulare gli ordini. Per quanto riguarda la top ten, è la seguente:
1. La speranza dell’uomo tascabile
2.
La via migliore tascabile
3.
Gli avventisti del settimo giorno
4.
I versi della Bibbia
5.
Gesù io sono
6.
La via della guarigione
7.
Profeti e re
8.
La via migliore edizione deluxe
9.
Bibbia puzzle
10.
Patriarchi e profeti

Maol: Progettate di ritornare con questa iniziativa nel 2020?
M. C.: La notizia vera è che nel 2020 raddoppieremo: avremo infatti un’edizione «primaverile» a fine maggio e poi la consueta autunnale a ottobre. Stiamo pensando a inserire qualche modalità, proprio in occasione della festa di maggio, per rendere sempre più interessante e stimolante la partecipazione della chiesa.

Maol: Per concludere, cosa diresti ai membri di chiesa?
M. C.: Sinceramente, ai membri non dobbiamo dire niente perché ci hanno ampiamente gratificato e dimostrato di volere bene e di supportare questa istituzione e la missione che le è affidata. Semmai saremmo contenti di ricevere consigli, richieste, suggerimenti e anche critiche, perché solo così potremo crescere e migliorare.

 

Sfogliando il giornale: Dissesto idrogeologico in Liguria

Sfogliando il giornale: Dissesto idrogeologico in Liguria


In questa puntata di Sfogliando il giornale vi proponiamo le considerazioni del pastore della chiesa avventista di Genova Eugen Havresciuc sui crolli dei viadotti e le frane in Liguria. Non si tratta solo di mutamenti climatici, ma anche di incuria e avidità. Intervista di Claudio Coppini e Roberto Vacca.

Vivere il crollo del Muro

Vivere il crollo del Muro

Ripubblichiamo l’intervista al past. Vincenzo Mazza realizzata nel 2009 in occasione del ventennale della caduta del muro berlinese.

Notizie Avventiste – Il 9 novembre 1989, cadeva il muro di Berlino, evento storico che ha significato la riunificazione della Germania e del popolo tedesco. I cristiani delle diverse confessioni, nella Repubblica Democratica Tedesca (Ddr), hanno avuto un ruolo importante nella rivoluzione pacifica contro il regime di Honecker, iniziata alcuni mesi prima del crollo del muro. Furono loro a organizzare le riunioni di preghiera per la pace, la giustizia e la libertà, nelle chiese protestanti di diverse città della Germania dell’Est. A Lipsia, cuore della resistenza, gli incontri di preghiera furono presto seguite da marce silenziose intorno alle chiese, che poi divennero vere e proprie marce pacifiche nel centro della città. Molti avventisti si unirono ai credenti delle altre confessioni e parteciparono alle riunioni di preghiera e alle marce, subendo anche le ritorsioni della polizia. La presenza avventista costituiva una esigua minoranza (19.000 membri) nel panorama protestante della Ddr. Sabato 4 novembre ’89, diversi avventisti berlinesi, dopo aver partecipato al servizio di culto nella loro chiesa, si unirono alle 200.000 persone che marciavano verso l’Alexanderplatz. Qualche giorno dopo, il muro cadde.

Per rivivere in qualche modo il clima di quell’evento nelle chiese, Notizie Avventiste ha intervistato il past. Vincenzo Mazza che nel 1989 svolgeva ancora il suo ministero pastorale nella Germania dell’Ovest, e che è stato testimone del cambiamenti avvenuti.

Notizie Avventiste: Com’era vista la Chiesa dell’Est dai fratelli dell’Ovest?
Vincenzo Mazza: Una chiesa fedele, puntuale, coerente. Tutto ciò che arrivava dalla Germania dell’Est, per quanto riguarda la teologia e la fede, era ritenuto valido. Gli avventisti della Ddr avevano una università teologica ad alto livello, che era molto apprezzata.

N. A.: Come era la vita quando c’era il muro?
V.
M.: Nelle chiese c’erano famiglie che erano state divise, che avevano parenti e amici dall’altra parte del muro, e non potevano vedersi né incontrarsi. A una certa distanza dal muro, da una parte e dall’altra, c’erano delle impalcature dove la gente saliva per poter vedere e salutare, almeno da lontano, i propri familiari e gli amici. Nella Germania dell’Est, c’era una molta povertà. Il marco dell’Ovest era molto ricercato perché era accettato nei negozi europei dove si vendeva merce migliore. La gente che poteva era disposta a dare fino a 20 marchi dell’Est per un marco dell’Ovest. Le chiese erano controllate continuamente. Essendo tutto dello Stato, era problematico trovare farmaci, acquistare frutta e verdura, che pur se prodotte in loco venivano esportate in Occidente, e alla gente restava spesso solo la carne da mangiare. Ma, la cosa peggiore era la mancanza di libertà.

N.A.: Qual era il clima alla caduta del muro?
V. M.: È stata un’esperienza straordinaria. Finalmente le famiglie poterono riunirsi e riabbracciarsi. Le chiese si sono subito impegnate nell’accoglienza dei fratelli e delle sorelle provenienti dall’Est, che in parecchi si riversarono all’Ovest. Ogni giorno arrivavano famiglie numerose che cercavano lavoro e una casa. E tutti si davano da fare per trovare loro una sistemazione. Tanti sono stati i gesti di generosità da parte di chi aveva di più verso chi dall’Est non portava niente. Nelle chiese si facevano appelli per raccogliere fondi per aiutare i fratelli dell’Est, e tutti davano generosamente. Chi veniva dall’altra parte del muro raccontava le sue esperienze di vita diversa, vissuta nella ristrettezza e nella paura, ma dove aveva potuto vedere la mano di Dio agire. Fu anche un periodo di confusione, perché tutti coloro che abitavano nella Ddr vollero andare in Germania per stare meglio.

N.A.: Come è cambiata la Chiesa avventista?
V. M.: La Chiesa avventista è cresciuta dall’oggi al domani. Le varie Federazioni della Chiesa nella Ddr e nella Germania si sono fuse formando due Unioni di Federazioni, una a Nord e una a Sud. Vi è stato anche l’incontro di modi diversi di vivere e di intendere la fede, pur essendo tutti tedeschi, e questo ha portato a delle riflessioni. Una cosa buona per l’avventismo occidentale fu la facoltà teologica di Friedensau, che si trovava nella Ddr e che era regolarmente riconosciuta dallo Stato, quindi rilasciava lauree riconosciute. In Gemania, invece, la facoltà di teologia avventista di Darmstadt era privata. Con l’unificazione, la facoltà di teologia fu trasferita a Friedensau che tuttora rilascia lauree regolarmente riconosciute dallo Stato. Sicuramente, poiché è successo tutto molto velocemente, ci sono stati anche momenti non facili, ma tutto sommato, la Chiesa avventista è stata matura nell’affrontare i problemi e risolverli con spirito di responsabilità.

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