Il dolce suono del silenzio (prima parte)

Il dolce suono del silenzio (prima parte)

Testata-Rettangolare-300x214 (sfondo bianco)Luigi Caratelli – Nelle scene iniziali del film «Il seme della follia», interpretato da Sam Neill, trova rilievo una frase che è tutto un programma, oltre che un monito: «Abbiamo distrutto l’aria, abbiamo distrutto il mare, perché non proviamo a distruggere il nostro cervello?».

Alvin Toffler, nel suo libro «Lo choc del futuro», individua un fattore che realmente può distruggere o mandare in tilt il nostro cervello: la fretta. Così presenta il problema: «La società occidentale, negli ultimi 500 anni, è stata investita da una tempesta di fuoco di mutamenti… generando personalità bizzarre».1 Gli studiosi del settore sono ormai convinti che il ritmo crescente nel mondo intorno a noi disturbi il nostro equilibrio interiore, alterando il modo stesso con il quale sperimentiamo la vita. In poche parole: l’accelerazione esterna si traduce in accelerazione interna; la fretta intorno a noi genera fretta dentro di noi.

Lo afferma con altre parole Lamberto Maffei, direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR. Egli si dice convinto che il progresso tecnologico e la sua diffusione capillare hanno prodotto una vera e propria rivoluzione del pensiero, ciò è particolarmente deleterio perché «dimentichiamo che il cervello è una macchina lenta e nel tentativo di imitare le macchine veloci, andiamo incontro a frustrazioni e affanni».2 Molte persone, avvertendo un fastidioso vuoto interiore, si drogano con massicce dosi di «velocità tecnologica», con il risultato che nelle relazioni con le altre persone non sperimentano più la profondità e la meraviglia dell’incontro, della scoperta serena e profonda della vita che vibra nell’essere umano.

Mi piace ribadirlo con le parole di un cantautore dei nostri giorni, Caparezza, il quale nella sua canzone «Mica van Gogh», citando l’esperienza del pittore olandese, a suo modo innamorato della vita e delle persone, indica una via alternativa a molti giovani del nostro tempo: «Lui [van Gogh], trecento lettere, letteratura fine [scritte a suo fratello]3. Tu, centosessanta caratteri, due faccine, fine… Lui, distante ma sa tutto del fratello Theo, tu convivi e non sai nulla del fratello tuo… Lui, oli su tela, e creò dipinti, tu, oli sui muscoli, gare di body building». Certo, van Gogh mise fine alla sua vita, ma per motivi diametralmente opposti ai tanti suicidi per «vuoto di vita». La fretta uccide la vita.

Nel Salone dei Cinquecento a Firenze, il Vasari ha dipinto un interessante affresco. Ciò che lo caratterizza è una ripetizione di una immagine simbolica: una tartaruga sul cui carapace svetta una vela di nave. Messaggio dai contenuti apparentemente antitetici: la tartaruga è conosciuta per la sua proverbiale lentezza, mentre la vela se gonfiata dal vento permette a uno scafo di scivolare veloce su uno specchio d’acqua. Il messaggio è reso esplicito in un nastro disegnato sotto l’immagine in questione su cui è scritta la frase latina “Festina lente”, cioè “Affrettati lentamente”. Ancora un’ antinomia. Solo apparente però. Perché è proprio la nostra struttura cerebrale che ce lo chiede. Per il nostro bene. Per i motivi che lo studioso Guy Claxton ha evidenziato nel suo lavoro dal titolo «Il cervello lepre e la mente tartaruga».4

La nostra mente, ci viene spiegato, ha diverse velocità: una più rapida del pensiero, che agisce sotto la spinta degli istinti, e una intonata su un registro che lavora più lentamente; quest’ultima è il pensiero propriamente detto, che ci permette di elaborare e capire le cose; in poche parole di ragionare. La vela e la tartaruga. Quindi l’imperativo «Affrettati lentamente» è nelle nostre capacità innate.

Ecco perché lo scrittore Oswald Chambers ha potuto dire del Cristo, modello per ogni nostro comportamento: «Gesù non perdeva mai tempo, ma non andava mai di fretta». Fretta che invece bombarda anche i cervelli dei religiosi, siano essi laici o pastori. Un cervello costantemente sollecitato dalla fretta sperimenta l’ansia; la quale, a sua volta, restringe innaturalmente i tempi e li svuota di contenuti concreti.

Ellen G. White ha scritto che i delicati circuiti elettrici del cervello sono i soli canali che lo Spirito Santo può utilizzare per comunicare i suoi messaggi. Se tali circuiti sono sovreccitati, anche in chi si occupa dell’opera del Signore, il risultato sarà disastroso. L’operaio, per dirla con l’apostolo Paolo, «Batterà il vento», andrà a vuoto, ricavandone solo agitazione e spossatezza. Invertendo la rotta, decidendo di «Affrettarsi lentamente», offriamo allo Spirito Santo la possibilità di rendere il nostro cuore (o il nostro cervello, se gradite) il canale dei suoi «frutti», che invece sono «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo» (Gal 5:22). Insomma il prototipo del vero, maturo cristiano.

Mi piace concludere con una lunga, ma appropriata pagina di Alessandro Pronzato, magari utile proprio per rallentare, dominare la fretta e mettere in attività la mente lenta.

Parlando di colui che si dedica al servizio del Signore e usando immagini iperboliche, l’autore scrive: «Qualcuno ha il coraggio di sostenere che gli uomini del deserto si sottraggono agli impegni apostolici. Personalmente non ho mai conosciuto individui più attivi di quelli. Vanno nel deserto per agire, lavorare, costruire. Hanno rinunciato all’efficienza. Perché hanno scelto l’efficacia. Il solitario… è uno che, avendo compreso che apostolato significa “portare Dio”, “dare Dio”, si è anche reso conto che soltanto Dio può dare Dio… L’uomo è impotente a portare Dio, a comunicarlo… per evitare tentativi sterili, [il solitario-discepolo] si pone direttamente all’interno dell’azione stessa di Dio. La sua attività è tanto più efficace in quanto non è sua. Tra un moderno apostolo indaffarato, agitato, che non può fermarsi un istante altrimenti il mondo si inceppa, e il solitario… non ho dubbi. È quest’ultimo il più attivo. Quando vedo un apostolo correre, ho sempre paura. Sospetto che, preso da tutte quelle opere e realizzazioni, nel suo affanno, abbia lasciato a casa il Dono che aspetto e che mi è dovuto. L’uomo di Dio non corre. Lui cammina al passo di Dio. E quando mi raggiunge, non è solo».

Naturalmente per «solitario» Pronzato intende colui che è in ascolto di Dio. Ecco la ricetta per sottrarsi alla tirannia della fretta e dell’agitazione che svuota. Ma questo è tutto un altro articolo… anzi, un altro cervello.

 


1 A. Toffler, Lo choc del futuro, Sperling e Kupfer, Varese, 1988, pp. 11, 12.
2 L. Maffei, Elogio della lentezza, Il Mulino, Bologna, 2014, p.13.
3 V. van Gogh, Lettere a Theo, Guanda editore, 2013.

 

 

 

In ricordo di Giovanni Magistà

In ricordo di Giovanni Magistà

M24-Decesso-Giovanni-MagistaGiada Marciano – «Viva Speranza, presto Gesù dal ciel verrà!». Queste le parole che abbiamo cantato fino al tramonto di sabato 14 maggio, quando il caro Nonno Giovanni si è spento. Una fede incrollabile, quella di Giovanni Magistà, che ancora all’età di 90 anni continuava a predicare e a trasmettere a figli, nipoti, parenti e amici. «Grazie Nonno per avermi donato un’eredità dal valore inestimabile: la fede del Signore e la certezza del suo ritorno! Ci rivediamo presto nel regno dei cieli!».

 

 

 

 

 

Caro Pino ti scrivo…

Caro Pino ti scrivo…

Abbiamo ricevuto da Francesco Laterza, colportore in Campania, un ricordo di Giuseppe (Pino) Buonocore, compianto capo colportore, che pubblichiamo. G. Buonocore si è addormentato nel Signore a febbraio (Messaggero avventista online del 18 febbraio). Pur sapendo che Pino non può più sentirlo, l’autore immagina di inviargli una lettera, per esprimere il suo affetto e per farci un po’ rivivere il periodo d’oro del colportaggio, di cui G. Buonocore fu attivo promotore e artefice.

 

I-lettori-scrivono-AFrancesco Laterza – Sono passati due mesi da quando ci hai lasciato e il ricordo di te è così forte che quasi si fa fatica ad accettare la tua dipartita. Ti scrivo e ti voglio dire quello che forse non ti ho detto mai. Lo voglio fare usando il linguaggio che ormai solo pochi possono capire: quello dei colportori evangelisti.

Di te ho conosciuto prima le gesta e poi la persona fisica. Fin da subito mi ha colpito il tuo entusiasmo, la tua determinazione e il tuo coraggio: tutti elementi che facevano di te una persona speciale.

Con Rita, tua moglie, siete entrati nella mia vita e in quella dei miei cari. Ci avete visti fidanzati, sposi e genitori, testimoni fisicamente e spiritualmente di tutte le tappe della nostra vita. Per i miei figli eri il nonno che potevano abbracciare, visto che gli altri vivevano lontano.

Alla fine del mio servizio civile nella scuola di chiesa «Cappella Vecchia», a Napoli, la tua capacità professionale ha dato un altro frutto: portarmi nel mondo del dipartimento delle Pubblicazioni. Formato, guidato ed entusiasmato, mi hai fatto conoscere quel linguaggio che solo chi ha colportato può capire.

Esisteva il binomio casa editrice-colportori evangelisti. Un binomio fatto di uomini e donne capaci di emozionare ed emozionarsi davanti a un unico obiettivo: divulgare il messaggio della pagina stampata.

«Come le foglie d’autunno» era il motto che ci accompagnava.

I colportori erano formati per portare e divulgare il messaggio, partendo dai più piccoli per poi arrivare agli adulti. Quanto sono lontani gli incontri di colportaggio, che davano la carica e allontanavano le difficoltà che il lavoro presentava. Tu, in particolare, tenevi molto a questi raduni ed eri fremente e desideroso di vederci tutti presenti.

Volevi tanto bene ai tuoi allievi, ma chi scrive si è sentito particolarmente amato. Lavorare con te mi rendeva forte, tanto che ero desideroso di superare il mio maestro, e quella sana competizione ha determinato successi che oggi sono inimmaginabili.

Mi sono sentito onorato quando mi hai indicato come tuo successore. In parte ti ho accontentato, accettando di guidare i gruppi estivi a Jesi, per alcuni anni.

Il mondo pastorale dell’epoca deve riconoscenza a Buonocore perché ha insegnato l’arte di bussare alle porte, per portare parole di vita e di speranza alle persone.

Con la salute precaria tua e di tuoi colleghi capi colportori come Negrini, Testa, Liali, è iniziata la fase calante del colportaggio in Italia.

È triste dirlo, dopo di voi è venuta meno la vocazione e soprattutto la materia prima, gli uomini, per poter continuare la storia.

Caro Pino, ti ho voluto scrivere per ricordare; perché noi colportori viviamo soprattutto dei ricordi di quei tempi che ormai non ritorneranno mai più, ma che grazie a te e a quelli come te ci hanno permesso di dire: in quel mondo meraviglioso c’ero anch’io. Grazie.

 

Caro Pino ti scrivo…

Risurrezione e fede

Maol- i lettori ci scrivonoIn questo periodo in cui si ricorda la Pasqua, pubblichiamo una riflessione sulla risurrezione inviata dal past. Giampiero Vassallo, direttore del dipartimento Libertà religiosa della Federazione delle chiese cristiane avventiste della Svizzera romanda e del Ticino.

Giampiero Vassallo – Giovanni 11:43. Dobbiamo parlare di risurrezione. Impresa ardua, molto ardua, forse troppo. Ardua perché non è detto che questo discorso interessi tutti, o interessi tutti in uguale misura. Quello che interessa a tutti è la vita. La risurrezione, anche per chi ci crede è sempre lontana, futura. E le cose future interessano sempre meno di quelle presenti.

L’interesse può farsi vivo quando, con il passare degli anni, cominciamo a vedere morire intorno a noi le persone con cui abbiamo vissuto. Muore un nostro fratello e allora, forse, cominciamo a chiederci che cosa sarà di lui. E poi noi stessi ci avviciniamo alla nostra morte (che non di rado oggi ci coglie di sorpresa) e può darsi che pensiamo, forse con qualche esitazione, alla nostra possibile risurrezione. Ma appunto: è sempre un interesse legato alla morte.

Ora, la prima cosa che il testo di oggi ci vuole dire è che la risurrezione è legata anche alla vita. Se la nostra generazione è nell’insieme poco interessata alla risurrezione, è perché la collega solo alla morte. Gesù invece la collega anche alla vita.

Ma c’è un altro motivo per cui è molto arduo parlare di risurrezione. È che in fondo non sappiamo bene di che cosa si tratti. Non si tratta di non sappiamo intellettualmente. Non lo sappiamo perché non lo abbiamo sperimentato. E di una cosa si può parlare bene solo se si è sperimenta. Chi può dire di aver fatto l’esperienza della risurrezione? In fondo, viviamo un’intera vita, eppure più andiamo avanti più ci chiediamo che cosa sia la vita. Non è detto che con il passare degli anni diventi più facile rispondere. A me pare che diventi più difficile. E se è difficile dire che cos’è la vita, che pur viviamo, quanto più difficile sarà dire che cos’è la risurrezione, che nessuno di noi ha vissuto.

È dunque davvero difficile parlare della risurrezione, e d’altra parte è altrettanto difficile non parlarne perché essa è lì, davanti a noi, in tutta la sua evidenza. Qualcuno dirà che la risurrezione è soltanto una parola. Sì, ma non è una parola nostra, è parola di Dio. È l’unica parola della Bibbia che non appartiene al nostro mondo, perché è situata al di qua della frontiera della morte. Possiamo adoperare l altre parole della Bibbia: libertà, amore, giudizio, perdono, verità, perché fanno parte anche della nostra esperienza umana. La risurrezione no. Essa è soltanto di Dio. Soltanto Dio risuscita. Noi possiamo dare la vita ma non risuscitarla. Possiamo dare la vita che non c’è ancora, non possiamo ridare la vita che non c’è più. Possiamo creare i vivi, ma non ricreare i morti. È per questo che non la possiamo né spiegare né commentare né illustrare: possiamo solo ascoltarla.

La nostra stessa vita, lunga o breve che sia, non è altro che una lunga introduzione all’attimo supremo della risurrezione. E tutta la faticosa storia umana, con i suoi pesi, il suo immenso travaglio, i suoi ritardi e le sue contraddizioni, non è anch’essa altro che una lunga introduzione al momento in cui sarà trasfigurata nella risurrezione.

C’è, nella tradizione cristiana, una parola non cristiana che dice Memento mori, ricordati che devi morire. La parola cristiana è invece: ricordati che devi risuscitare. La vita cambia se la si vive come preparazione alla morte o come preparazione alla risurrezione. E non cambia solo la vita, ma anche la morte. Il Vangelo ci invita a vivere la nostra esistenza come una lunga introduzione alla risurrezione.

Ed è qui che aggiungo una parola alla risurrezione: fede. Risurrezione e fede.

La risurrezione è per i morti, la fede per i vivi; i morti non possono più credere e i vivi non possono più risuscitare. Risurrezione e fede non sono la stessa cosa, però si assomigliano: chi crede comincia una vita nuova e la risurrezione è la vita definitivamente e pienamente nuova. Chi crede entra nel mondo della risurrezione. Non è ancora risuscitato ma è già un agente della risurrezione. Vivere nella fede significa diventare, in questo mondo di morte, agenti della risurrezione.

Ma il messaggio evangelico non è solo racchiuso nelle due parole risurrezione e fede, è racchiuso anche in un nome: Gesù. Egli dice: Io sono la risurrezione e la vita. Credere in lui significa credere nella risurrezione.

Gesù di fronte la morte del suo amico Lazzaro pianse. Non fu solo commozione. Una delle caratteristiche del nostro tempo è la crescente impassibilità di cui diamo prova davanti alla morte degli altri: ci stiamo abituando alla morte degli altri, alla morte di tutti. Non sappiamo più fremere, reagire. Non piangiamo più. Gesù pianse, non restò impassibile di fronte la morte.

Credere in Dio non significa accettare rassegnati la morte, ma credere fin da ora che la potenza del suo amore è in grado di operare la nostra risurrezione.

 

 

In ricordo del mio professore Domenico Maselli

In ricordo del mio professore Domenico Maselli

 

Il pastore valdese Domenico Maselli, scomparso il 4 marzo, è stato professore di diversi studenti avventisti che hanno frequentato l’università di Firenze. Pubblichiamo il ricordo che ci ha inviato Giovanni De Meo.

Giovanni De Meo – Appena appresa la notizia, con molto dispiacere e cordoglio, della scomparsa di Domenico Maselli, non ho esitato un attimo a stendere il mio personale ricordo di un grande uomo di cultura, innamorato della Parola di Dio, di un oratore efficace che riusciva sempre ad affascinare gli uditori, sia che fossero studenti, sia che fossero semplici fratelli nella fede; un professore che ha sempre dimostrato affetto e rispetto per i suoi studenti nei confronti dei quali era sempre disponibile.

Ho steso queste parole di getto, come se il rimandare la folla dei miei ricordi, corresse il rischio di poterli dimenticare.

Se mi sono laureato in storia del cristianesimo, lo debbo a lui che, incontrandomi un giorno in Via San Gallo, sede della facoltà, allora, di Magistero, a Firenze, mi strapazzò ben bene perché avevo abbandonato gli studi e mi obbligò a presentarmi, qualche giorno dopo, con il libretto universitario.

Ebbi una seconda strapazzata perché mi mancavano solo sei esami. Detto fatto: telefonò a un collega dicendo che aveva davanti a lui uno studente, «anzi un fratello» che doveva sostenere dandomi un piccolo libretto per poter superare la sua materia, ma soprattutto perché questo mi avrebbe aiutato a riprendere gli studi.

1992-06-22-04-FIGli altri esami non furono così facili, ma l’incoraggiamento, il pungolo di Domenico Maselli furono costanti sino ad arrivare a scegliere l’argomento della tesi: Alfred-Felix Vaucher (1887-1993): un secolo d’avventismo. Gli anni della giovinezza. (Pubblicata successivamente nella rivista Adventus 1994/2).

Sul mio libretto universitario, che a suo tempo ho fotocopiato prima di riconsegnarlo, su 20 esami, ben sette portano la sua firma o quella di qualche suo assistente.

E proprio a proposito di assistenti, desidero ricordare la sua particolarità di avvalersi, in assenza dei propri assistenti, degli stessi studenti come commissari di esame durante le lunghissime giornate in cui si svolgevano le sue interrogazioni. Anch’io sono stato «commissario» e ho il ricordo di un’intera giornata passata ad ascoltare gli altri studenti e solo per ultimo potei sostenere a mia volta l’esame.

Da sempre grande estimatore di Alfred-Felix Vaucher (teologo avventista, ndr), questo valligiano autodidatta, in più di un’occasione gli cedette la sua cattedra e, presentandolo ai corsisti, lo definiva sempre «Il più grande studioso e conoscitore vivente del millenarismo».

A questo proposito ho un grande rimpianto: conoscendo la mia posizione in ambito avventista, mi chiese di sondare la possibilità di poter ottenere il permesso di tradurre dal francese e pubblicare, tutto a spese dell’università fiorentina, l’intera raccolta della Lacunziana, scritta e pubblicata da Alfred-Felix Vaucher. La risposta fu negativa dato che, mi dissero, questo lavoro lo faremo noi. Noi inteso come casa editrice e come Unione.

Purtroppo fu una grande occasione sprecata dato che l’intero lavoro non vide mai la luce. Pubblicare invece quei testi sotto l’egida dell’università di Firenze avrebbe assunto un significato molto più ampio rispetto alla ristretta cerchia della hiesa cristiana avventista italiana, dando la possibilità a molti altri studiosi di conoscere e apprezzare l’opera di questo nostro professore.

Durante la preparazione della tesi (la volle rivedere ogni volta che terminavo un capitolo), mi confidò che il giorno della discussione nessuno della Commissione esaminatrice, di cui lui fu il segretario, ci avrebbe capito qualcosa all’infuori di noi due: e così accadde. Naturalmente fu il mio relatore e al termine della mia presentazione mi disse, sorridendo, che il 110 me lo dava, ma non la lode perché ero troppo «in ritardo, troppo vecchio».

Per poter stendere la tesi, ho dovuto fare ricerche sui nostri giornali e anche su altre testate evangeliche che Domenico Maselli mi suggerì di andare a rispolverare, e il termine era più che mai rispondente a verità, nei magazzini della Biblioteca Nazionale di Firenze. Questa voglia di ricerca, che già coltivavo, mi è rimasta addosso e ancora oggi continuo ad alimentarla.

Dopo la tesi, ricevetti l’invito/obbligo di seguire un suo corso di perfezionamento della durata di un anno. Questo periodo sfociò in una ulteriore tesina riguardante questa volta i primi giornali avventisti in lingua italiana che avevo già dovuto esaminare per ricercare i moltissimi articoli di Alfred-Felix Vaucher. Successivamente fu presentata ai lettori del Messaggero Avventista, come inserto del mese di settembre 1996, con il titolo «Storia dei primi periodici della Chiesa Avventista in Italia».

I suoi corsi di storia del cristianesimo altro non erano che veri e propri sermoni che lui esponeva, spesso Bibbia alla mano, corredandoli di date e personaggi che presentava con la più grande naturalezza e che erano il compendio di una memoria eccezionale, presentati con la sua possente voce che non ha mai avuto bisogno di microfoni e diavolerie varie, come lui li definiva, e che aveva in grande antipatia.

Aveva una conoscenza profondissima di una quantità quasi infinita di personaggi del mondo protestante ed evangelico italiano, a partire dai pre-riformatori, della Riforma, del periodo risorgimentale sino ad arrivare a quelli contemporanei che via via ha presentato nei suoi numerosissimi scritti.

Per fare un esempio: nel libro del 2011, edito dalla Claudiana, Scelte di fede e libertà. Profili di evangelici nell’Italia Unita, sono ben sette i personaggi di cui si occupa, ma sono certo che avrebbe potuto presentarne molti di più se altri non lo avessero fatto.

Desidero ricordare anche due suoi volumi, relativi alla Storia delle chiese cristiane dei Fratelli, che prendono in esame i periodi 1836–1886 il primo, e 1886-1946 il secondo. All’inizio del primo volume, ritroviamo due lunghe note dedicate al lavoro di Vaucher, inerenti agli scritti del gesuita Manuel Lacunza, e dove fa inevitabilmente riferimento ai diversi volumi della Lacunziana.

La firma di Domenico Maselli si trova anche nei nostri periodici. Memorabile un suo articolo del marzo 1974, sul mensile Segni dei tempi, intitolato «Divorzio, parla uno storico». Era il periodo che precedette il relativo referendum e il nostro prese nettamente posizione per il mantenimento di tale istituzione.

Insomma, un personaggio con una cultura e una preparazione quasi sterminata. La sua scomparsa lascia un vuoto difficilmente colmabile sia per chi come me lo ha frequentato, ammirato e anche amato, sia per coloro che lo hanno conosciuto solo attraverso i suoi scritti.

Rimangono i suoi libri, i saggi, gli articoli, i suoi interventi pubblici e privati, che continueranno ad essere suoi fedeli e continui testimoni.

Arrivederci Domenico, mio professore, mio amico, mio fratello!

(Foto: archivio storico di Giovanni De Meo)

A proposito di profezie

A proposito di profezie

Bibbia1Luigi Caratelli – Nel 1992, Maurizio Blondet dava alle stampe il libro I fanatici dell’Apocalisse nel quale stigmatizza quanti, nei vari ambiti religiosi, usano le profezie in modo improprio. Non posso che essere totalmente d’accordo con lui; come pure condivido la preoccupazione per l’atteggiamento di molti che sono contagiati dal profetismo da «palla di cristallo».

Dopo 40 anni di predicazioni e di conferenze, mi sono convinto che questo pericolo è reale e abbastanza diffuso. Confermo: in seno alle varie denominazioni religiose si annidano molti «fanatici dell’Apocalisse». Ho incontrato entusiastici sostenitori dei fuochi di Harmaghedon, che però non disdegnano di picchiare la moglie e farle anche di peggio, dimenticando che il Vangelo è soprattutto etica e amore. Io stesso, per evitare di accendere micce inopportune, quando predico, non solo temi legati al profetismo, ho cura di introdurre sempre i miei interventi ricordando che il centro del Vangelo è «il sorriso di Dio e l’abbraccio di Gesù». Forse perché ho stampate a fuoco nella mia mente le stupende parole di Paolo: «Le profezie verranno abolite… e la conoscenza verrà abolita», mentre «L’amore non verrà mai meno» (1 Cor 13:8). Le profezie e la conoscenza, o la cultura, saranno abolite poiché serve docili e transitorie del messaggio del Vangelo, mentre l’amore è il carico che ci porteremo dietro sino alla casa del Padre.

Eppure in molti disattendono le illuminanti parole dell’apostolo, facendo del messaggio profetico, come anche della conoscenza teologica e della cultura che la sostiene, una specie di «totem». Credo fermamente nella cultura, purché trattata come ausilio per veicolare il messaggio di Gesù a chi giustamente vive di cultura. Si può però usare «la conoscenza» nello stesso terrificante, improprio modo, tipico dei «fanatici dell’Apocalisse». Mi diceva una carissima amica che spesso i teologi rapiscono al cielo le cose semplici di Dio e le rendono complicate per gli uomini; mentre l’evangelista fa esattamente il contrario: ascolta i misteri di Dio per renderli comprensibili agli uomini; comprese le profezie. Perché le profezie sono luce sul sentiero della chiesa, essendo parte costituente del messaggio del Vangelo. Siamo d’accordo con Alfred Vaucher quando dice: «Perfettamente chiare, le profezie ostacolerebbero la libertà umana. Completamente oscure, esse non servirebbero a nulla. Così come sono, la loro relativa chiarezza basta per orientare l’azione degli uomini di buona volontà». Luce per la chiesa appunto.

I segni
Invece, vari predicatori e teologi, a mio parere anche in buona fede, rischiano si spegnere quella luce. E qui individuo un altro pericolo che aleggia sulle chiese: quello della moda del «politicamente corretto», che in quanto a effetti devastanti concorre con l’azione dei «fanatici dell’Apocalisse». Politicamente corretti. Un altro totem: ossia non dare fastidio a nessuno, edulcorare il messaggio, non allarmare i fedeli parlando di cose indigeste e fuori moda, invitare costantemente a riposare tranquillamente sulle panche di chiesa. Politicamente corretti insomma. Un esempio: da qualche tempo in ambito teologico si tende, anche comprensibilmente, proprio a causa di fanatici che si attivano solo con il verbo profetico, di smussare la teologia sui «segni dei tempi» del capitolo profetico di Matteo 24, con l’aggiunta di un «segno» a dir la verità non contemplato nell’elenco. «Il segno siamo noi», si dice oggi. E qui non comprendo. Anzi, sono sicuro che questa espressione, rispetto alla teologia dei segni dei tempi, sia soltanto un artificio teologico perché il credente, fin dalla fondazione del mondo, non può essere altro che «un segno» dell’amore e della salvezza di Dio. Tutti i credenti, da Adamo fino a quanti accoglieranno il Signore che scende sulle nubi alla fine del mondo, sono chiamati ad essere un segno: «voi siete una lettera» che altri leggono, voi siete «un profumo» che invita a guardare al cielo, diranno gli scrittori sacri. Quindi sicuri che, da sempre, e per sempre, noi siamo «segno» di Dio nel mondo, ritornerei ai «segni» escatologici. Anch’essi illustrazione dell’amore di Dio e luce per il nostro futuro che, ne convengo, potrebbe anche non essere il nostro.

La Bibbia di Gerusalemme conferma che la sovrapposizione della rovina di Gerusalemme, di cui parla Gesù, con la fine del mondo: «esprime… una verità teologica: perché se i due avvenimenti sono cronologicamente distinti, hanno però tra loro un legame essenziale, essendo il primo il prodromo e la prefigurazione del secondo». Anche Ellen G. White è dello stesso avviso. Nel suo libro La speranza dell’uomo afferma: «Nella sua risposta, Gesù non distinse la distruzione di Gerusalemme dal giorno del suo ritorno, ma intrecciò la descrizione di quei due eventi… Nella sua misericordia unì la descrizione di quei due grandi avvenimenti e lasciò ai discepoli il compito di approfondire da soli il significato. Parlando della distruzione di Gerusalemme, le sue parole andarono oltre quel fatto, fino al giorno del giudizio finale… Questo discorso fu fatto non solo per i discepoli, ma anche per coloro che sarebbero vissuti al tempo degli ultimi eventi della storia… Nella distruzione di quella città egli vide un simbolo della distruzione finale del mondo». (pp. 449, 531)

Gesù aveva detto ai suoi discepoli: «Ve lo dico fin d’ora, prima che accada; affinché quando sarà accaduto, voi crediate che io sono» (Gv 13:19). Dio non lascia mai senza luce, se abbiamo voglia di rischiarare i nostri passi. Quindi aggiunge: «Poiché verranno su di te dei giorni nei quali i tuoi nemici ti faranno attorno delle trincee, ti accerchieranno e ti stringeranno da ogni parte dentro di te» (Lc 19:43,44). Per quaranta anni i discepoli di Gesù «segni del suo amore», hanno predicato il «segno» tanto atteso e lo hanno continuamente ripetuto a se stessi e agli altri, giorno dopo giorno. Il segno diventò storia sotto i loro occhi, dopo quarant’anni; e lo riconobbero perché il loro Maestro li aveva aiutati a riconoscerlo: «Ve lo dico», quarant’anni prima, perché al tempo debito possiate «riconoscerlo».

Il tempo debito può essere anche un tempo di angoscia, che confonde, che invita a scacciare la paura, inventando correzioni politicamente corrette, che tranquillizzano appunto.

Pur tuttavia, nella tragedia, chi ha avuto l’accortezza di ascoltare le parole di Gesù, si è salvato: «Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti – aveva detto Gesù annunciando la catastrofe incombente sulla città, – allora sappiate che la sua devastazione è vicina. Allora quelli che sono in Giudea fuggano sui monti, e quelli che sono in città se ne allontanino» (Lc 21:20,21). Così commenta E. G. White questo episodio: «Quando le insegne romane sarebbero state poste sul terreno sacro che si estendeva fuori le mura di Gerusalemme, i discepoli di Gesù avrebbero dovuto salvarsi fuggendo. Quando sarebbero apparsi i segni premonitori, chi voleva fuggire non avrebbe dovuto indugiare… il segnale della fuga doveva essere individuato immediatamente». (La grande speranza, p. 32). «Io annuncio la fine, la fine sin dal principio – dice Dio -, molto tempo prima dico le cose non ancora avvenute» (Is 46:10).

Ascoltare salva la vita
Si dice che ascoltare fa crescere la conoscenza e la fiducia; direi che salva la vita. Così si salvarono tutti coloro che, avendo visto i «segni» dell’imminente tragedia, credettero. Il profeta Amos ha scritto che «Il Signore… non fa nulla senza rivelare il suo segreto ai suoi servi, i profeti» (3:7); mentre l’autore del libro delle Cronache ha cura di aggiungere: «Credete nel Signore, vostro Dio, e sarete al sicuro; credete ai suoi profeti e trionferete» (2 Cr 20:20). Aveva promesso il re Davide, conoscendo l’agire di Dio: «Il Signore sarà un rifugio sicuro per l’oppresso, un rifugio sicuro in tempo d’angoscia» (Sal 9:9). La cosa avvenne proprio nel momento della distruzione di Gerusalemme. Molti avevano ascoltato le parole del Cristo e lo avevano seguito sulle strade della Palestina. Quando, quarant’anni dopo, alcuni di loro, di fronte al pericolo, si ricordarono delle sue parole, ebbero salva la vita: «Nella distruzione di Gerusalemme – scrive ancora Ellen G. White – non morì neppure un cristiano. Gesù lo aveva predetto ai suoi discepoli e così tutti coloro che credettero alle sue parole tennero conto del segno preannunciato» (Idem, p. 37). Infatti la storia ci dice che, proprio grazie a questo segno riconosciuto, quei credenti fondarono una delle prime comunità giudeo-cristiane a Pella, nella Perea, oltre il Giordano.

Gli altri restarono lì, dove tutto sarebbe crollato. Non ritenevano utili né le profezie né i segni dei tempi da esse annunciati. Ribadirei con E. G. White che la profezia di Gesù fu fatta: «non solo per i discepoli, ma anche per coloro che sarebbero vissuti al tempo degli ultimi eventi della storia… Nella distruzione di quella città egli vide un simbolo della distruzione finale del mondo».

Lasciando da parte la sfera di cristallo e il fanatismo, e mettendo in conto che i «tempi» appartengono solo e solamente «al Padre» (Atti 1:7), non posso tralasciare il fatto che, soprattutto il politicamente corretto (che non ha nulla a che vedere con la prudenza a cui ci invita Gesù, e il rispetto per le opinioni altrui) spegne ogni sana ricerca nel campo profetico. Che è attesa serena. Anche se i segni possono non realizzarsi nei giorni in cui viviamo. Il politicamente corretto, con la stessa colpevolezza del fanatismo, ha creato penuria «di pane e acqua nel paese», con la tragica (spero non irreparabile) conseguenza che molti, assetati e affamati di cibo spirituale, sono spinti a cercare «cisterne screpolate» (Geremia 2:13) cui abbeverarsi.

Non sempre, lo convengo, ma spesso molti «fanatici dell’Apocalisse» sono il risultato finale di questa «correzione» delle semplici parole del Signore.

Correzione che potrebbe costare cara a molti: «Se eravate certi che queste cose sarebbero avvenute, perché non ci avete avvertiti? Non sapevamo queste cose, perché ci avete lasciati nell’ignoranza? Ci vedevate continuamente: perché non ci avete parlato del giudizio a venire, e che dovevamo servire Dio, altrimenti saremmo periti?» (E. G. White, Manoscritto 102).

Ne convengo: il giudizio di Dio è uno di quei temi politicamente «scorretti»; tutta la frase di Ellen G. White è politicamente scorretta. «Io vi dico queste cose, perché quando avverranno…», voi possiate essere salvati.

Bisogno di profeti
Sono pienamente d’accordo con Vittorio Messori quando afferma che: «… è possibile mostrare, quasi in sinossi, come l’analisi laica e l’intuizione religiosa coincidano nel giudicare il nostro tempo un tempo di svolta, forse di fine. Le categorie escatologiche e apocalittiche escono, quindi, dal loro esilio nei libri profetici per trasmigrare anche nei saggi, negli articoli, nelle interviste dei laici» (A. Gentili, Quanto manca alla fine?, 1984). È vero: se si vuole sentire parlare di «segni dei tempi», bisogna ricorrere agli studi (a prova di fanatismo da Apocalisse) di questi «profeti laici». Essi, non tutti, poiché le esagerazioni abbondano anche tra loro, sono politicamente scorretti: hanno il coraggio di dire la verità. Sul cambiamento climatico, sul vampirismo della finanza da sala giochi, sulla criminalità, sulla violenza, ecc. Anche loro però subiscono la pressione dei tanti «scienziati» politicamente corretti che, a suon di statistiche, su questi temi si sforzano di «tranquillizzare» le coscienze.

Ho avuto il privilegio di conoscere e intervistare padre Alex Zanotelli, sacerdote da anni impegnato a gridare i «segni» che abbrutiscono il mondo. I politicamente corretti, compresi politici di professione, hanno cercato, da sempre, di azzittirlo, ma lui continua il suo ministero «profetico». Sono rimasto stupito quando, acquistando un suo libricino per un mio lavoro sull’economia, ho potuto leggere che la collana in cui lo scritto è inserito si chiama «Segni dei tempi» e che, in seconda di copertina, si legge: «Quando si fa sera, voi dite: “Bel tempo, perché il cielo rosseggia”; e al mattino: “Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo”. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi?» (Mt 16:2,3).

Caro Pino ti scrivo…

I dieci comandamenti commentati da Benigni

Maol- i lettori ci scrivonoAngelo Fantasia – La recente presentazione dei dieci comandamenti da parte di Benigni mi ha fatto venire in mente il monito di Gesù: «le pietre grideranno».

Benigni è stato una «pietra» che, nonostante i suoi notevoli limiti di conoscenza dottrinale, è stato grande strumento di alfabetizzazione di milioni di spettatori su nozioni basilari della volontà di Dio. Molti hanno per la prima volta sentito il testo originale dei dieci comandamenti così come scritti «dal dito di Dio». Essi sono diversi da quelli imparati a scuola o nelle chiese, ora lo sanno tutti. I dieci comandamenti hanno un fondo di saggezza, che supera ogni intelligenza umana e che si può capire se si attinge con onestà intellettuale ai concetti di amore, giustizia, libertà e verità.

I potenti di questo mondo, per avidità di potere, nascondono la verità e impediscono alla gente comune di conoscerla. La società attuale è arretrata, come quelle passate, nella misura in cui preferisce strategie di violenza e sopraffazione invece dell’amore e della giustizia. L’affermazione dell’esistenza eterna di Dio e dell’adorazione dovuta a Dio solo, del divieto d’ogni culto idolatra e dell’uso improprio del suo nome, la volontà di Dio di un incontro speciale il «sabato» settimanale con l’umanità, l’onore per i genitori come gratitudine per la vita in atto, il divieto di pratiche ingiuste nei rapporti sociali come l’assassinio, l’adulterio, il furto, la menzogna, la concupiscenza dei beni altrui, tutto questo è stato presentato con enfasi, convinzione ed efficacia da Benigni.

Questa presentazione ha del miracoloso, è stata come una pietra che ha gridato, come il sasso che è partito dalla fionda di Davide in direzione di Golia, come un colpo a un ultimo muro che sta per essere abbattuto. Di fronte a questo grande evento, più unico che raro, mi è sorta una profonda amarezza, che mi ha ricordato quella di Gesù alla vista di Gerusalemme che lo stava rigettando.

Un bravo attore, coraggioso nell’inoltrarsi in nuovi sentieri stretti ed erti, alla ricerca di verità, dimostra, allo stesso tempo, di essere legato da pesanti catene che non gli permettono di avanzare con l’agilità necessaria per raggiungere l’elevato obiettivo agognato. Non è congruente esaltare il dito di Dio e tollerare il dito dell’uomo che cambia e stravolve il testo originale. Non è cosa da nulla la cancellazione umana del secondo comandamento riguardante il culto delle immagini di Dio. Il sabato non è degli ebrei ma è dato all’umanità alla creazione. Gesù stesso ribadisce che il sabato è stato istituito eternamente per l’uomo e che non è sostituito dalla domenica o da altre feste. I dieci comandamenti sono un corpo unico ed immutabile, Giacomo scrive che chi ne trasgredisce uno li trasgredisce tutti.

Caro Roberto, queste valutazioni non sono per giudicarti ma per aiutarti a capire che «Dio può perdonare per conto terzi», è questa la vera bella notizia del Vangelo di Dio. Il contrario è morte nel peccato. Il Vangelo di Dio rivela il suo infinito amore attuato con potenza e giustizia. Il sacrificio di Gesù sulla croce è potente da pagare ogni trasgressione dell’uomo pentito, anche quei torti non perdonati da chi ha subito il danno.

La salvezza non è un’arte umana, né il risultato di opere meritorie, essa è semplicemente un dono di Dio a uomini e donne immeritevoli, che lo accettano per fede, con umiltà, pentimento e gratitudine. La salvezza non si compra, né è un mezzo per procurarsi guadagni, perché ci giunge gratuitamente e si proclama agli altri gratuitamente. L’unico limite che Dio si è imposto liberamente è quello di rispettare la libertà di scelta altrui. Per rispetto della libertà, Dio non decide per un altro. La libertà ha una sua struttura, che si chiama legge di libertà, legge dell’amore o dieci comandamenti, ai quali compete l’ufficio di misura della qualità delle scelte degli esseri liberi, nel giudizio universale.

È per libertà che l’anima non è creata immortale, ma può diventarlo. La dottrina delle sofferenze eterne nell’inferno è falsa, perché toglie a Dio il carattere di libertà, giustizia e amore. L’uomo non sarebbe libero se non potesse scegliere tra esistere e non esistere, d’altra parte non è venuto all’esistenza per sua volontà. Per vivere eternamente è necessario decidere di fare un salto per staccarsi dal mondano e afferrare la salvezza. I salvati sono quelli che accettano il dono di salvezza di Gesù, che, conoscendoli, osservano tutti i suoi comandamenti inalterati e che, attraversando la tribolazione di questa vita, si sono staccati dal terreno. Questo è il mio augurio per tutti, compreso il bravo Roberto. Buon 2015.

Caro Pino ti scrivo…

Comunicazione di Rolando Rizzo sulla sua salute

I-lettori-scrivono-ACari fratelli e care sorelle, sono di nuovo a casa un po’ dolorante, dopo un intervento chirurgico preventivo a seguito della brutta appendice degenerata di cui ero stato operato pochi mesi fa. I medici mi hanno assicurato che ora tutto è ok, e anche questa dovrebbe essere passata. Ho respirato spesso il dolore fisico degli altri, mai il mio. Non lo immaginavo peggiore di quello che è stato e anche l’esperienza dell’ospedale l’avevo troppo vissuta di riflesso con i fratelli e in famiglia, per sentirla totalmente nuova. Mi sto rimettendo velocemente e spero di poter ancora servire la mia famiglia e l’Opera del Signore. Non ho volutamente sparso la voce per svariati motivi e anche perché preferisco parlare di guarigione che di malattia…
Vostro in Cristo, Rolando Rizzo.

Caro Pino ti scrivo…

Le «lasagne» rilette attraverso le nozze di Cana

Maol- i lettori ci scrivonoDavide Pizzi – Ho letto con piacere l’articolo sul miracolo delle lasagne. Mi ha emozionato, mi ha trasmesso gioia, forza, e ho lodato e glorificato Dio! L’articolo «Lasagne. Perché?», pone degli interrogativi con lo stesso stile e criterio logico degli agnostici razionalisti, che in passato hanno tentato di smontare la mia fede con domande simili.

Se considero l’aspetto più materiale e visibile di primo acchito nel miracolo delle lasagne, colgo soltanto l’aspetto più di superficie, ma se invece mi sforzo di cogliere, con l’aiuto dello Spirito Santo, il lato spirituale, trovo significati nascosti.

Anche alle nozze di Cana la tavola fu riccamente imbandita fino al superfluo. Il banchetto proseguì per giorni come di usanza in quei tempi. A un certo punto terminò il vino, ma di acqua ce n’era tanta. Che senso ebbe il miracolo di Cristo? Se non avesse tramutato l’acqua in vino, nessuno sarebbe morto di sete! Eppure il miracolo lo fece ugualmente. Quale fu allora il senso di quel miracolo? La risposta è nel seguente versetto: «e manifestò la sua gloria; e i suoi discepoli credettero in lui» (Gv 2:11). Questo è il significato più profondo cui alludevo prima: cogliere il profilo spirituale, che va oltre l’aspetto immediato e materiale del miracolo in sé.

Dio, che è infallibile, ha avuto le sue indiscutibili ragioni per decidere di intervenire. Io provo a immaginarne un paio. Penso che se tra i presenti c’erano dei parenti o conoscenti del defunto che non erano avventisti, anche questi hanno potuto assistere al miracolo e beneficiarne soprattutto spiritualmente. Penso al dolore straziante che si prova quando muore una persona cara, dolore profondo e acuto che può far vacillare anche la fede in Dio, fino al punto di chiedersi se Gesù esiste veramente.

Quale miglior risposta allora, contenuta dentro questo miracolo, e se Dio può far parlare le pietre, non vedo perché non possa servirsi anche delle lasagne. Sono sicurissimo che, sia chi era presente al miracolo, sia chi ha letto l’esperienza da qualsiasi angolo del mondo, se ha creduto, ha dato gloria a Dio, perché questo è il vero senso del miracolo delle lasagne, come di ogni altro, poiché di certo, se qualcuno fosse restato senza porzione, di sicuro non sarebbe morto di fame.

Caro Pino ti scrivo…

Lasagne. Perche?

Maol- i lettori ci scrivonoDora Bognandi – Forse perché donna, forse perché moglie di pastore, ma la storia delle lasagne (pubblicata sul numero scorso del Messaggero avventista online) attira la mia attenzione e mi lascia senza parole. Nonostante i commenti tutti positivi riportati da Adventist Review che aveva pubblicato per prima la notizia, la reazione mia e di alcune persone con cui ho scambiato qualche pensiero non è stata così positiva.

Ritengo che i responsabili del nostro periodico abbiano fatto bene a pubblicare la notizia perché ci offre lo spunto per riflettere. Non ho elementi per mettere in dubbio la veridicità della storia, né la gioia autentica che quelle persone hanno provato e neppure la loro voglia di raccontarla a tutti, ma alcune domande me le pongo. E riguardano soprattutto il contesto in cui la cosa è avvenuta: siamo in occasione di un funerale; in America, dove uno dei problemi più gravi della società è l’obesità; non manca l’essenziale: ci sono dolci e insalata a volontà.

Come era stata acquistata l’insalata, potevano essere acquistati facilmente altri cibi. Ma no, le nostre sorelle pregano che si verifichi un altro miracolo come quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci, cibo povero e che doveva servire a sfamare dei poveri. Pregano per qualcosa di non essenziale e per un cibo non povero. E Dio risponde immediatamente!…

Mi chiedo come mai questo Dio così attento a rispondere al superfluo non sia altrettanto solerte nei confronti dei tanti poveri tormentati dai crampi allo stomaco per la fame… E penso anche che, quando prego per ricevere una benedizione superflua per me, sarebbe meglio se pensassi prima di tutto ai bisogni imprescindibili degli altri.

Un miracolo del genere avrà dato fiducia e forza ai presenti che hanno goduto della «benedizione», ma quanta amarezza può aver suscitato in chi guarda la tavola riccamente imbandita di coloro che forse non sanno neppure che cosa significhi aver fame e che sono benedetti con il sovrappiù…. Ma forse la mia reazione è data dal fatto che vedo troppo spesso i miei fratelli e me stessa in generale molto concentrati sulla nostra «benedizione» e non altrettanto sensibili ai problemi degli altri e ai diritti delle persone!

I lettori scrivono – Votare per l’Europa

I lettori scrivono – Votare per l’Europa

M18-Editoriale_elezioni-europee– «Complimenti per quel piccolo editoriale sull’Europa con l’allegato che ho aperto e letto con interesse e attenzione» – Giusy, chiesa di Catania

– «Sono sicuro che esistono cristiani che ricercano la pace, la tolleranza e la libertà religiosa e che non credono che l’Europa abbia “migliorato la vita”. L’opinione di queste persone che preferirebbero il separatismo non è un vociare “vuoto e insulso”. Mi fa specie che il Messaggero liquidi così le ragioni di chi la pensa diversamente. Ma poi queste ragioni le conoscete? Darete spazio anche a quelle, come avete dato spazio alla voce di Zagrebelsky?
Ma poi perché il Messaggero avventista si schiera su questo tema? Questa è per caso la posizione della Chiesa Cristiana Avventista del 7° Giorno? Grazie per i chiarimenti» – Emilio Tartaro, chiesa di Novara

Giuseppe Marrazzo – La campagna elettorale che si è appena conclusa è stata da molti definita una delle peggiori per le accuse e i toni e non solo per le argomentazioni, spesso inesistenti o poco chiare. Circa la posizione della Chiesa avventista relativa al voto, gli attenti lettori del Messaggero sanno che ne ho già parlato in passato (cfr. Messaggero avventista, aprile 2006, pp. 14-16) quindi, non è il caso di ripeterlo. Ho scelto Zagrebelsky perché è un giurista e non un politico; come sa, il nostro mensile, in campagna elettorale, non si schiera con nessun partito politico né invita a votare un determinato candidato benché, nel fervore della competizione, ogni opinione, incluso la sua lettera, esprima un certo colore.

Caro Pino ti scrivo…

I lettori scrivono – Facebook, era ora!

I-lettori-scrivono-ANon c’è l’abitudine di riportare le opinioni dei lettori, ma credo che questa volta la notizia è bella! Certo, come scrivete voi, nascerà qualcosa che lo sostituirà. Non ho mai fatto parte del «giro» di Facebook soprattutto per riservatezza; di certo non è bello vedere di tutto e di più da parte di molti, anche di dirigenti, che non fa onore né a loro né alla Chiesa. Mi auguro che Facebook, per quello che gli rimane di vita, possa servire veramente al messaggio di Cristo! (Renato Colmano, chiesa di Bolzano)

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